L'ARTICOLO DEL MESE

David Almond di Mara Pace

david almondL’autore de La vera storia del mostro Billy Dean, finalista del Premio Andersen 2014, si racconta tra ricordi d’infanzia e ragioni della scrittura.

Incontro David Almond poco dopo la sua intervista al Caffè autori della Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, lo scorso marzo. E mentre scatto le fotografie per Leggevo che ero, cercando un poco di luce tra stand e padiglioni (fuori piove), ripenso alle parole dell’autore. “I miei personaggi creano, fino quasi a distruggere” ha detto. “Ed è qualcosa su cui ci interroghiamo anche quando cresciamo un figlio: vogliamo che non abbia limiti, ma che allo stesso tempo di questi limiti diventi consapevole. Scrivere per me è la massima libertà, un processo in cui la grammatica diventa il confine da non oltrepassare per non perdere il significato.”
Poi la mia attenzione si concentra sul titolo che David Almond ha scelto come libro d’infanzia, per partecipare alla galleria a cui la rivista Andersen lavora ormai da diversi anni. È un libro che ripercorre l’intero ciclo delle leggende arturiane – King Arthur and his knights of the round table – scritto da Roger Lancelyn Green (1918-1987), scrittore britannico che ebbe tra i suoi docenti C.S. Lewis. In una delle ultime edizioni tascabili proposte dalla Penguin, l’introduzione al romanzo è firmata proprio dall’autore di Skellig, ospite in Fiera a Bologna per presentare il suo ultimo, bellissimo romanzo: La vera storia del mostro Billy Dean (Salani).

Perché considera King Arthur and his knights of the round table il suo libro d’infanzia?
Ricordo che mi aspettava nella calza dei regali, una mattina di Natale. E che l’ho subito trovato un libro bellissimo. Mi hanno colpito le illustrazioni dell’artista tedesca Lotte Reiniger e il racconto era scritto in modo magistrale: drammatico e allo stesso tempo pieno di magia e di momenti orripilanti. Si tagliavano un sacco di arti e di teste, e questo mi piaceva molto.

Quando ha capito per la prima volta di amare la lettura?
Ricordo che quando avevo cinque anni, in classe, leggevo libri molto semplici. Mi piaceva guardare come le parole apparivano stampate sulla carta, e le illustrazioni che le accompagnavano. Mi piaceva la sensazione stessa della carta, quando la toccavo.

È stata una persona in particolare a trasmetterle la passione per la letteratura?
Avevo uno zio, che di mestiere stampava giornali. Ma era anche uno scrittore, pur non avendo mai pubblicato nulla. Amava tutti i generi letterari. Scriveva poesie, racconti, testi teatrali e lo faceva soltanto perché gli piaceva farlo. Per me, stargli accanto, è stato motivo di grande ispirazione. Un modello da seguire, per cui nutrivo una forte ammirazione.

Leggeva con sua figlia?
Sì, sempre. Quando era molto piccola leggevo ad alta voce per lei: libri cartonati, albi illustrati, libri di ogni forma e materiale. Ho anche inventato tante storie per mia figlia, che ora è diventata un’appassionata lettrice.

Billy Dean, il protagonista del suo ultimo romanzo, scrive un proprio “piccolo capolavoro” su pelli d’animale, e prima ancora traccia parole sul muro della stanza in cui è relegato a vivere. Ricorda la sua prima esperienza di scrittura, il momento in cui ha prodotto qualcosa di veramente suo?
Non ricordo un’occasione precisa, ma già quando ero molto piccolo mi piaceva tracciare le lettere sul quaderno, e poi le parole. Quando avevo sette anni ho scritto un libro: l’avventura di un gruppo di bambini in una casa abbandonata. Erano solo pochi fogli, ma li avevo piegati e confezionati in modo che sembrassero davvero un piccolo libro.

Quanto c’è del processo creativo dello scrittore nell’esperienza di Billy Dean?
Moltissimo. Billy Dean comincia dalle parole, che poi diventano frasi, capitoli e infine un libro intero. Ed è proprio quello che fanno gli scrittori. Nonostante le sue difficoltà con l’ortografia, sente l’urgenza di scrivere perché ha una storia da raccontare. E quindi lo fa.

In un’intervista ha citato Flannery O’Connor: Imagination is not free but bound, l’immaginazione non è mai libera, bensì vincolata. Da che cosa sente condizionata la sua immaginazione di scrittore?
Le cose che ti limitano, in realtà, possono anche renderti libero. Il processo di accettazione, in questo, è fondamentale. Nel mio caso è stato importante accettare l’influenza del cattolicesimo; la mia stessa voce, quella con cui parlo e scrivo ogni giorno; e il mio essere cresciuto in un luogo preciso e determinato: un piccolo paese nel Nord dell’Inghilterra. Se non avessi accettato queste cose, non avrei mai potuto scriverne liberamente. In un primo momento ho cercato di allontanarmi dai temi della religione, dal mio modo di parlare, da una precisa collocazione geografica. Ma quando ho cominciato ad accettare questi elementi, ad inglobarli nel mio processo di scrittura, mi sono reso conto che non limitavano le mie possibilità espressive: le rendevano più ampie.

Non è la prima volta che incontriamo la guerra nei suoi libri. Ma è sempre una guerra lontana, raccontata e immaginata più che vissuta.
In effetti mentre scrivevo erano in corso tantissimi bombardamenti, dall’Iraq all’Afghanistan. A pensarci, il mondo è sempre pieno di guerre. Quindi ho ipotizzato una realtà in cui i conflitti bellici esistessero, seppur lontani: scoppia una bomba da qualche parte, passa un aereo… Credo che raccontare la guerra come presenza/assenza sia un modo interessante di descrivere il mondo in cui viviamo oggi.

Questo romanzo, più di altri che ha scritto in passato, è stato classificato anche come romanzo per adulti. Ma lei non ha mai avuto paura di affrontare domande importanti nei libri per ragazzi. Esiste, da questo punto di vista, una differenza tra letteratura per adulti e per ragazzi?
Quando scrivo per ragazzi, sento il bisogno di dire la verità. E percepisco che i bambini sono interessati a questioni grandi e complesse. Spesso ti chiedono che cos’è dio, e se esiste; che cosa succede dopo la morte; da dove veniamo. Diventando adulti, davanti a questi grandi interrogativi, finiamo per dire: bah, non lo so. Ma io preferisco avere lettori che sanno ancora porsi queste domande. Guardare un tetto e chiedersi che cosa ci fa lì. E il cielo? Che cos’è? Per questo trovo interessante entrare nel mondo dei bambini: un mondo stranissimo, e allo stesso tempo ovvio.

[da ANDERSEN 313, giugno 2014 – Scopri il resto del numero qui]

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