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Le strade dei Grimm di Pino Boero

[dalla prefazione di Pino Boero al catalogo della mostra Antichi incanti, omaggio degli illustratori italiani all’opera complessiva dei fratelli Grimm a cura della rivista Andersen. Il catalogo è in vendita qui]

copertina Antichi incantiImmaginate i due fratelli Grimm, Jacob Ludwig Karl (1785-1863) e Wilhelm Karl (1786-1859), studiosi di mitologia e folclore, prestigiosi filologi e linguisti (Jacob pubblicò, fra l’altro, una Grammatica tedesca e una Storia delle lingue tedesche) trasformati in due imbroglioni che, in una Germania ancora contadina, passano da un villaggio all’altro e, carpendo buona fede e danaro ai contadini creduloni, si spacciano per guaritori ed esorcisti nei confronti di oscure presenze da loro stessi inventate. Questa è la base di partenza del recente film I fratelli Grimm e l’incantevole Strega (The Brothers Grimm) scritto da Ehren Kruger e girato dal regista Terry Gilliam (Matt Damon e Heath Ledger sono gli attori che interpretano Wilhelm e Jacob, Monica Bellucci è la Strega) e questo è il punto da cui può iniziare un percorso a ritroso verso l’essenza del lavoro dei due fratelli: è significativo, infatti, che i presupposti dissacranti della pellicola (hanno fatto storcere il naso a più di un critico) approdino a una sorta di gioco inquietante (e divertente) fra ciò che i due protagonisti della pellicola inventano per ingannare i paesani e le misteriose magie effettivamente radicate nel loro mondo: in una foresta paurosa una regina-strega ha ottenuto la vita eterna e non l’eterna bellezza, i lupi esistono davvero e gli incantesimi non sono pane solo per gli illusionisti; la realtà non è solo quella che si vede e l’angoscia nasce dal suo lato più oscuro e inafferrabile. Dalla finzione filmica sembrano emergere, insomma, elementi utili a confermarci sia che l’essenza dell’intreccio fiabesco sta nella “mescolanza” di illusione e realtà, in un flusso narrativo circolare senza soluzioni di continuità, sia che i Grimm (quelli autentici) operarono in un momento storico particolare sospeso fra severità scientifica e entusiasmo, fra idea roussoviana d’un mondo popolare vicino allo stato di natura e esaltazione romantica verso antiche tradizioni depositarie dello spirito vero d’una nazione, fra illusioni (e occupazioni) napoleoniche e restaurazione, fra chiarezza razionalistica e inquietanti storie della tradizione popolare. Sentiamo al proposito Gianni Rodari:

[la grande raccolta di fiabe italiane di Italo Calvino] è il primo grande corpo nazionale, in lingua, della fiaba italiana. Avevamo raccolte regionali, parziali, ma non avevamo mai avuto un grande corpo nazionale curato da uno scrittore come Calvino. In Germania lo hanno avuto agli inizi dell’Ottocento, quando la Germania era occupata da Napoleone e c’era bisogno di un grande sforzo di unità nazionale: e la raccolta dei fratelli Grimm è stato proprio uno dei momenti di questo sforzo di ricerca dell’identità nazionale tedesca. Perché invece la grande raccolta di Calvino è arrivata solo vent’anni fa, dopo la seconda guerra mondiale? Perché anche quella è un momento della fantasia popolare italiana, perché raccoglie da tutte le regioni questo patrimonio fantastico e dice al popolo italiano “questo è un libro che hai fatto tu, io, Calvino, ci metto la mia penna”. Ma l’autore di questo libro è il popolo italiano, e questo può avvenire soltanto in un momento di grande unità nazionale, come è stato subito dopo la guerra, quando il popolo italiano è diventato protagonista della sua storia (1).

Ho voluto fornire la citazione completa dell’intervento di Rodari dedicato alle fiabe sul “potere” perché mi pare colga l’essenza civile e le motivazioni culturali delle fiabe dei Grimm, che non erano raccontate – come ha scritto qualche recensore del film – “per far paura ai bambini”, ma per agevolare la nascita di una identità germanica e per esaltare “il Volk, il popolo [non inteso come] ceti sulbalterni della società, poveri, lavoratori, proletari [ma come] espressione di desideri [e] anche di errori comuni” (2). Resta il fatto che la loro raccolta (fra il 1812-’14 e il 1856 ebbe sette edizioni che presentano differenze sia dal punto di vista dell’inclusione/esclusione di testi che dal punto di vista formale (3) contribuì a caratterizzare a livello europeo il modo stesso di percepire la fiaba, obbligando a ragionare su svariati elementi: dal passaggio oralità-scrittura con il conseguente “congelamento” di testi costruiti sull’aspazialità, sull’atemporalità, sulla mobilità della parola, al tema del destinatario ideale perché se da un lato molti educatori “sconsigliavano di raccontare Märchen ai bambini […] perché [avrebbero fatto] nascere nel loro cuore desideri e bramosie che la vita reale non può soddisfare” (4), dall’altro il poeta Novalis, che tanta influenza avrà un secolo e mezzo dopo anche sulla formazione della rodariana Grammatica della fantasia, sosteneva che

La fiaba è quasi il canone della poesia. Ogni cosa poetica deve essere fiabesca. Il poeta adora il caso.
In una buona fiaba tutto deve essere meraviglioso, misterioso e incoerente; tutto animato. Sempre in modo diverso […] Il mondo della fiaba è il mondo esattamente opposto al mondo della verità e appunto per ciò le somiglia tanto, quanto il caos somiglia alla creazione perfetta.
[…] Il genuino poeta di fiabe è un veggente dell’avvenire (5).

A me pare che implicitamente Novalis, valorizzando il meraviglioso, il misterioso e l’incoerente, abbia colto il valore educativo delle fiabe (dei Grimm in particolare ma anche di tutte le altre) che troppo spesso sono state ridotte, censurate, “violentate” da pedagoghi “assennati” e “prudenti” preoccupati dell’ambiguità di Cappuccetto Rosso o dell’horror di Hansel e Gretel. E proprio a proposito delle fiabe dei Grimm trovo significativa per “cautela” la posizione di Giuseppe Fanciulli che se riconosce loro il pregio di aver interpretato “l’anima germanica” attraverso “eterni temi” come “l’orgoglio umiliato, la malvagità invidiosa scoperta e punita, la bontà premiata dopo pene e guai […]”, non manca di metterne in evidenza qualità negative “per il nostro gusto latino” come “l’abuso della crudeltà e della balordaggine [con] particolari tragici e ripugnanti”, dalle quali bisognerà tenere lontane “le giovani menti” (6).
Non v’è dubbio, d’altra parte, che un paese come il nostro decisamente autoreferenziale in fatto di cultura non abbia mai brillato per attenzione nei confronti del fiabesco straniero (e in genere di gran parte del fantastico d’Oltralpe comunque configurato, da Andersen a Carroll): Giorgio Cusatelli in un documentatissimo saggio ci conferma che la più antica, parziale edizione italiana delle fiabe è del 1875, quindi risulta posteriore di cinquant’anni a quella inglese (1823) e di quarantacinque a quella francese (1830) e “bisognerà attendere il 1908 per disporre, a cura di un traduttore rimasto purtroppo anonimo, dell’edizione completa (Salani), smembrata però in cinque volumetti dai titoli casuali” (7).

Il ritardo appare oggi colmato e le fiabe dei Grimm non solo ci sono restituite nella completezza della loro articolazione, ma aprono la porta a suggestioni originali e diverse (la nostra Mostra ne è un esempio): possono farci riflettere sui lieti finali di Cappuccetto Rosso, sulle mutilazioni ai piedi che si infliggono le sorellastre di Cenerentola, sulle tante “male morti” di matrigne e antagonisti (la “botte piena d’olio bollente e di serpenti velenosi” in cui muore la matrigna della fiaba I dodici fratelli (8) costituisce un piccolo capolavoro di macabra illogicità), sulle ambientazioni oscure e sulle presenze misteriose, su fanciulle dalle mani mozzate e poi miracolosamente ricresciute, ma anche consentirci di guardare con occhio più libero e attento alle stesse dichiarazioni dei Grimm che, depurate da sovrastrutture formali, valgono ancora – nello stesso tempo – come dichiarazione di poetica e come enunciazione pedagogica:

Perciò corre intima per queste storie quella purezza per la quale i bimbi ci appaiono meravigliosi e beati: hanno, per così dire, quegli stessi occhi azzurri, immacolati, luminosi, che crescer di più non possono, mentre le membra sono ancor tenere e deboli, ancora inabili al servizio della terra. Questo è il motivo per il quale con la nostra raccolta noi non abbiamo voluto soltanto servire alla storia della poesia e della mitologia, ma fu anche nostra intenzione che la poesia stessa che in esse è viva, agisca e rallegri chi può rallegrare, e quindi che questo serva come libro di educazione (9).

1     Intervento di Gianni Rodari nel Dibattito con G. Amato, C. Ravaioli in Afanasjev, Andersen, Grimm, Perrault e altri, Fiabe sul “potere”, Roma, Savelli 1978, pp. 154-155,
2     G. Cusatelli, I Grimm e la fiaba popolare per l’infanzia in Itinerari nella fiaba. Autori, testi, figure a cura di F. Cambi, Pisa, ETS 1999, p. 73.
3     Idem, pp. 72-73.
4     D. Richter, Contenuti sociali delle fantasie fiabesche nel corso del mutamento storico in AA.VV., Tutto è fiaba. Atti del Convegno Internazionale di studio sulla Fiaba, Emme Edizioni Milano 1980, p. 228.
5    Novalis, Frammenti, Rizzoli , Milano 19873, p. 317.
6    G. Fanciulli-E. Monaci, La letteratura per l’infanzia, SEI, Torino 1934, p. 129.
7    G. Cusatelli, Filologi e fiabe: le vicende grimmiane in Italia in Studi di cultura francese ed europea in onore di Lorenza Maranini, Schena, Fasano di Puglia 1983.
8    J. E W. Grimm, Fiabe, introduzione di G. Dolfini, Milano, Mondadori 1980, p. 43.
9    Citazione di G. Dolfini in J. E W. Grimm, Fiabe, cit., pp. XV-XVI.

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