L'ARTICOLO DEL MESE

Questa non è una riforma. Intervista ad Alex Corlazzoli intervista raccolta da Martina Russo

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[L’intervista ad Alex Corlazzoli è stata pubblicata su Andersen n. 335 (settembre 2016), tra le colonne dello “Speciale rientro a scuola” in cui, per fare il punto sulla situazione attuale, si alternavano anche la riflessione di Anselmo Roveda (La buona scuola e l’oubliette) e l’elzeviro di Pino Boero (Olimpiadi della matematica)].

È passato un anno dall’entrata in vigore della Legge 107. Che ne è della “Buona scuola”? Più volte hai sottolineato l’assenza, in questa legge, di una base pedagogica forte: quanto la mancanza di un progetto educativo nuoce alla concreta applicazione di una riforma?
Questa è una non riforma. Anzi, è una legge ipocrita. Chi amministra un Paese deve avere profezia, deve saper guardare di là della campagna elettorale, dei voti e deve saper far tesoro delle esperienze che hanno fatto crescere la scuola italiana. L’Italia gode di riferimenti pedagogici importanti: penso a Maria Montessori; a Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani e alla sua scommessa a Barbiana; all’esperienza di Alberto Manzi nata dalla storia di un uomo che ha sempre saputo coniugare la passione civile, per l’America Latina con l’educazione e l’alfabetizzazione. Come dimenticare lo straordinario lavoro del maestro Mario Lodi, il suo Nel paese sbagliato o in anni più recenti La pedagogia della lumaca di Gian Franco Zavalloni. E ancora Loris Malaguzzi che dato a Reggio un’impronta e i maestri di strada napoletani, in primis Marco Rossi Doria che è stato anche sottosegretario all’Istruzione. La Legge 107 sembra essersi scordata di questi “padri” della scuola italiana, di coloro che hanno segnato la strada di tanti insegnanti. Ogni ministro che arriva a viale Trastevere si improvvisa pedagogista e inventa la “miglior” riforma della storia repubblicana. Anche in questo caso non c’è un’attenzione al bambino, alla revisione dei cicli scolastici, al “saper fare” di don Milani o all’educazione alla democrazia che Mario Lodi aveva saputo insegnare creando persino una cooperativa a scuola. Manca una direzione che sappia orientare tutto il sistema scolastico: dalla scuola dell’infanzia all’università. Barbiana non è scomparsa: ci sono altre Barbiana, nelle periferie delle nostre città, nei luoghi più desolati delle nostre campagne o delle nostre montagne. Non c’è, tuttavia, chi ha fatto tesoro dell’esperienza del priore.

Nel tuo libro #lacattivascuola (Jaca Book, 2015) metti in evidenza quanto sia sostanziale l’intervento diretto dei genitori, sia che si parli di risistemare il tetto della scuola, sia di comprare dei computer funzionanti. Genitori che, evidentemente, credono ancora nella scuola pubblica, nonostante le falle. Come consideri invece quei progetti di educazione parallela, come le scuole parentali, gli asili nei boschi, le lezioni a casa? Dietro a queste esperienze sembra esserci quel progetto pedagogico mancante nella riforma, a scapito, però della dimensione pubblica: una “concorrenza sleale” o una spinta a ripensare l’istituzione scolastica?
Sono un partigiano della scuola pubblica. La amo per poterla cambiare. Così com’è non va ma non smetto di essere un “rompiscatole”, un “provocatore” affinché ogni insegnante, dirigente, genitore e bambino senta il dovere di fare la sua parte per dare al nostro Paese una scuola che abbia un solo obiettivo: formare dei cittadini, insegnare a leggere perché la parola sia un mezzo per dare voce a chi non ce l’ha; insegnare ad amare l’arte perché si possa condividere la bellezza di un’opera; insegnare a usare la Rete per sapere quello che sta accadendo a Calcutta o a Tokyo. Ai genitori non possiamo chiedere di venire a dipingere l’aula o a sistemare gli infissi delle finestre ma dobbiamo chiedere loro di venire a far lezione, di costruire il percorso insieme. Amo il pronome “noi” e credo nel “noi” perché la scuola è tale solo quando è dei bambini, dei maestri, dei genitori, del dirigente e del sindaco in rappresentanza della comunità. Quando uno di questi soggetti non è o non si sente coinvolto non si può realizzare alcun progetto educativo veramente efficace, non si può pensare d’insegnare a vivere in una comunità. In quest’ultimo decennio tanti genitori si sono stancati di una scuola che non li rende protagonisti, che li chiama in aula solo per l’elezione del consiglio d’istituto e di classe. Molti hanno deciso di realizzare una scuola “parentale”. Ne ho visitate alcune: sono esperienze straordinarie dove mamme e papà si mettono in gioco, mettendo a disposizione le loro competenze, sentendosi partecipi di un percorso. Certo è che hanno un limite: resta un’esperienza per una élite dove è difficile incontrare il bambino arrivato dalla Siria o dalla Lituania. Abbiamo molto da apprendere da queste esperienze. Credo che sia arrivata l’ora di confrontarsi. Gli uni debbono uscire dalla sfera di cristallo delle loro scuole pubbliche statali; gli altri devono abbandonare le loro “riserve educative” per mettersi attorno ad un tavolo e guardarsi in faccia.

La prima parola che salta all’occhio leggendo il testo della legge è “autonomia”: un termine che ricorre, governo dopo governo, nelle riforme immaginate e mai messe in pratica. E che, se da una parte sembra un obiettivo auspicabile per le scuole, dall’altro sembra in contraddizione con la recriminazione, sostenuta da molti insegnanti, di sentirsi abbandonati dalle istituzioni. Allora, cosa significa (o significherebbe) concretamente, per una scuola, poter agire in autonomia?
L’autonomia è una di quelle parole che possono esistere se accanto ne mettiamo un’altra: responsabilità. Serve un’autonomia responsabile. Che significa? Possiamo pensare di lasciare a un dirigente che simula il tambureggiamento sul sedere di una ragazza, com’è accaduto in una scuola del Nord, l’autonomia di scegliere i suoi insegnanti sulla base di generici criteri? Possiamo permettere alle scuole di scegliere in autonomia il metodo di valutazione dei loro studenti lasciando che vi siano a distanza di pochi chilometri sistemi diversi? È pensabile una scuola che per essere più autonoma diventa più burocratica? Oggi l’autonomia è una parola vuota, anzi svuotata da una classe di dirigenti che non è all’altezza; da troppi docenti che non conoscono le Leggi che normano la scuola; da un ministero che ha lasciato che i burattini costruissero la loro storia ma continua ad essere il burattinaio che tira le corde, che appesantisce la scuola nel tentativo di trasformarla in un’azienda priva di fondi. E così capita che sulla carta ogni istituto debba avere un mobilty manager ma nella realtà non vi sono i soldi per attuare questa prassi.
L’autonomia di una scuola non può che ripartire dal concetto di responsabilizzazione: il dirigente deve tornare ad avere un ruolo educativo ed essere affiancato da chi, con competenza e incentivi adeguati, realizza gli obiettivi del piano dell’offerta formativa. Un’autonomia che permetta a ogni scuola di decidere come coinvolgere i genitori, quale sistema di valutazione adottare, che esame di maturità (non di Stato) fare, per esempio.

Nel testo di legge si parla anche di risorse economiche, a livello amministrativo, ma anche didattico. Eppure, spesso si sente lamentare la mancanza di fondi o l’impossibilità di impiegarli seguendo determinati progetti. Talvolta non si sa di averne a disposizione: tralasciando il bonus di 500 euro passato sotto i riflettori dei media, quanto sono consapevoli gli insegnanti e i dirigenti delle possibilità di investimento della scuola?
La pecca più grave degli insegnanti è quella di non conoscere il proprio contratto; di non leggere le leggi che riguardano la scuola; di non sapere nemmeno, a volte, il piano dell’offerta formativa. Chissà quanti professori o maestri hanno preso in mano il bilancio della propria scuola? Quanti sanno a quanto ammonta il bonus dei 500 euro in totale per tutta la classe docente? Chi si è preso la briga di andare a vedere quanto costa allo Stato italiano fare il test Invalsi? C’è un problema: l’insegnate spesso è felice di fare la sua parte, vuole entrare in classe, avere la Lim che funziona, il bidello sempre presente, la carta per le fotocopie ma non si chiede mai quanto spreco c’è nella scuola pubblica. Nella mia scuola vengono imposte ad ogni insegnante delle verifiche. Un esempio: tutti gli insegnanti di terza dei cinque plessi decidono quale verifica fare di storia a ottobre. Così per tutte le materie. Ogni mese arrivano pacchi di carta di verifiche. Quanti soldi sprechiamo per tutte queste fotocopie? Dobbiamo iniziare a parlare di “sprechi” e della mancata capacità di captare risorse per la mancanza di risorse umane competenti.

Tra gli impegni della legge anche la messa in sicurezza degli edifici scolastici. Ne #lacattivascuola raccogli una serie incredibile di incidenti, crolli, cedimenti strutturali, anche in scuole nuove o appena ristrutturate. È un elenco spiazzante e inquietante, che getta luce su quella condizione precaria dei nostri edifici scolastici che purtroppo sale alla ribalta solo se si verifica una tragedia. Ad un anno dall’uscita tuo libro e dalla legge 107, qualcosa è cambiato?
I crolli, i cedimenti non fanno più nemmeno notizia. Nell’ultimo anno sono stati più di venti. In alcune aree del Paese vi sono ancora ragazzi che devono fare turni pomeridiani per poter andare a scuola e all’Aquila a sei anni dal terremoto la maggior parte degli studenti è ancora costretta ad andare a scuola nei moduli provvisori. Non solo: i dati sulle certificazioni di agibilità e igienico sanitaria sono sconfortanti. Certo qualche passo è stato fatto: l’istituzione del Fondo unico per l’edilizia scolastica che ha consentito il recupero di fondi inutilizzati, ha evitato la duplicazione di interventi su una stessa scuola o lo spreco di soldi su scuole su cui non valeva la pena intervenire, ha garantito un utilizzo certo dei fondi disponibili sulla base di progetti concreti; la continuità dei finanziamenti per il triennio 2015 – 2017 legati alla messa in sicurezza, alla costruzione di nuove scuole, che recupera in pieno e supera, in positivo, quanto previsto dalla legge quadro sull’edilizia scolastica (legge 23 del 1996). Si è dato il via alle indagini diagnostiche di soffitti e solai: pur se non se ne conosce l’esito, il dato significativo è che ad oggi su 7.000 scuole finanziate più di 5.000 sono state già esaminate. Restano alcuni nei. Il filone #ScuoleBelle: impropriamente inserito negli investimenti per l’edilizia scolastica riguarda, invece, interventi di piccola e ordinaria manutenzione che poco hanno a che fare con la sicurezza. Altrettanto grave è la scarsa trasparenza e accessibilità dei dati sugli edifici scolastici pubblici. A 10 mesi dalla sua presentazione (7 agosto 2015), l’Anagrafe dell’Edilizia Scolastica presenta dati non ancora aggiornati e poco attendibili. A gennaio era stata annunciata la presentazione di quelli relativi alle certificazioni delle scuole (agibilità, prevenzione incendi, igienico-sanitaria) che a tutt’oggi non compaiono nell’Anagrafe e che non sono stati resi pubblici. Si starebbe procedendo all’aggiornamento dei dati da parte delle Regioni inadempienti e alla revisione degli indicatori ma nulla si sa circa i tempi e gli esiti di questa operazione.

[Questo articolo è stato pubblicato su Andersen n.335 – settembre 2016. Scopri il resto del numero qui.]

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