L'ARTICOLO DEL MESE

Siamo ancora capaci di leggere? di Germana Paraboschi

 

Questo articolo è apparso su Andersen n.359Abbonati ora per sostenere la rivista.

Negli ultimi mesi tutte le mie letture sembrano convergere verso un unico punto. Non è solo la mia professione di libraia che mi porta a leggere libri sulla lettura e sulla letteratura, ma anche la mia condizione di lettore onnivoro, o lettore selvaggio, secondo la definizione che Giuseppe Montesano ne dà in Come diventare vivi (Bompiani, 2017).

Da diversi anni dedico il periodo di ferie estive alla lettura di saggi che mi aiutino ad approfondire alcuni aspetti del mio lavoro. Quest’anno è stata la volta di L’età della frammentazione (Laterza, 2017) di Gino Roncaglia; semplificando molto il suo contenuto, è un saggio dedicato alla riflessione sull’ingresso del digitale nelle scuole. Poi mi sono imbattuta in Giuseppe Montesano, ed infine ho letto un articolo dedicato all’ultimo libro della neuroscienziata Maryanne Wolf, Lettore, vieni a casa (Vita e Pensiero, 2018) e, oltre ad acquistare e leggere il suo libro, sono andata ad ascoltare la sua appassionata conferenza l’8 settembre scorso all’Università Cattolica di Milano.

 

 

 Tre libri illuminanti, che si sono sovrapposti alle riflessioni scaturite dal mio punto di vista privilegiato, la libreria per ragazzi, e l’interazione con insegnanti, genitori, bambini e ragazzi. Mi sono trovata immersa in un circolo vizioso (o virtuoso) difficile da dipanare. Forse il punto di partenza migliore si trova nella domanda che Maryanne Wolf pone a se stessa e a noi adulti: siamo ancora capaci di leggere? Non la lettura a F o a Z, la lettura a surf che facciamo tra le mille informazioni che catturano il nostro occhio su computer, smartphone e tablet, ma il deep reading, la lettura profonda, che impegna molteplici circuiti cerebrali, attiva diverse connessioni, ci rende consapevoli di altre esperienze, emozioni, sensazioni, depositate nella nostra memoria, attiva le nostre reazioni emotive e ci rende capaci di comprendere l’altro, il diverso punto di vista in maniera empatica. Forse non ce ne rendiamo conto, ma non se siamo 

più capaci. Le colonne di libri e di articoli sulle nostre scrivanie e sui nostri comodini si fanno sempre più alte perché rimandiamo le letture che consideriamo importanti al weekend, quando veniamo sopraffatti da qualcosa d’altro, accumulando ansia e stress. Inoltre la lettura profonda è caratteristica della lettura su supporto cartaceo: e-reader e tablet non consentono fino in fondo le strategie mnemoniche e la partecipazione emotiva che mettiamo in atto quando attiviamo tutte le connessioni citate. Ciò che è più importante, partendo dal concetto della plasticità cerebrale, è che, visto che la lettura non è un’abilità congenita, i circuiti cerebrali abbandonati del deep reading non possono essere recuperati. Il ritorno al passato non è dato: persa un’abilità non potremo più tornare indietro.

Nella nuova lettura che stiamo apprendendo creiamo nuovi circuiti, ma perdiamo un aspetto importante: la consapevolezza di non sapere. Nella lettura a surf cerchiamo la conferma di ciò che pensiamo, non ci facciamo sorprendere dal dubbio, non ci confrontiamo con l’altro, e questo ci prepara a diventare degli analfabeti emotivi e mentali. È forse inutile sottolinearlo, ma la capacità di sentirsi parte di una comunità di diversi è il fondamento della democrazia. La capacità critica di leggere e capire, sottolinea in particolare Montesano, di informarsi non superficialmente, di non accettare aprioristicamente atteggiamenti fideistici, per esempio, verso il web, come se non fosse un semplice strumento nelle nostre mani, è ciò che ci rende liberi.

Ma, si chiede Gino Roncaglia, le informazioni che troviamo nel web colmano a sufficienza il divario con le conoscenze acquisite dallo studio sul libro cartaceo? La sua risposta è no: il mondo del digitale non ha ancora conosciuto uno sviluppo in verticale, in profondità. Siamo ancora in una fase di ampliamento orizzontale dell’offerta di informazioni, ma, senza una lettura profonda, diveniamo privi della capacità di discernere quelle fondamentali, che soddisfano davvero la nostra sete di conoscenza. E, potremmo aggiungere, di narrazione: in questo preciso punto si innesterebbero le riflessioni parallele affrontate, tra gli altri, da Jonathan Gottschall ne L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani (Bollati Boringhieri, 2014) e di Michele Cometa in Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria (Raffaello Cortina, 2017). Per questo motivo Roncaglia, collaboratore del MIUR per la scuola digitale, non condivide appieno l’ansia di buttare i libri di testo per spostare tutto l’insegnamento e l’apprendimento sul digitale.

Maryanne Wolf indica una possibile strategia, indirizzata soprattutto alle nuove generazioni. Il suo punto di vista si può riassumere in una parola: bi-alfabetizzazione. Occorre mantenere attivo e funzionante il circuito cerebrale che rende possibile la lettura profonda, quindi, secondo la studiosa, è importante escludere o limitare al massimo l’uso di qualsiasi strumento digitale almeno fino ai 5 anni, e in questo periodo di tempo aiutare i bambini a fare molte esperienze diverse, di gioco, di lettura a voce alta (quante parole nuove, non di uso quotidiano, il bambino imparerà ascoltando filastrocche, storie, fiabe!). Dalla scuola primaria, accanto all’alfabeto e alla lettura si potrà, con moderazione, affiancare una alfabetizzazione digitale, il più possibile attiva e non passiva. Gli strumenti digitali rappresentano, con le loro immagini, i suoni, i giochi, un mondo di stimoli continuo, veloce, che non fa altro che sollecitare il bambino alla ricerca di nuovi stimoli. Ma questa ricerca continua rischia di produrre stress, ansia, e una sovraeccitazione che si traduce in un distacco dalla realtà.

La stessa Wolf si rende conto che per realizzare questi obiettivi, salvaguardare l’abilità della lettura profonda, e abituare le nuove generazioni ad un uso attivo e consapevole degli strumenti digitali, quelli che ci sono, e anche quelli che verranno, i primi a dover essere formati siamo noi adulti.

Non si tratta solo della formazione degli insegnanti, ma del più ampio atteggiamento nei confronti del mondo digitale, di cui anche noi finiamo per essere utilizzatori passivi, e dell’ancora più vasta sufficienza con cui consideriamo la lettura, la scienza, il pensiero logico e critico. Ormai diamo per scontato che il sapere non costi fatica, che basti inserire in Google la nostra ricerca, e avremo tutte le risposte, e non importa quanto veritiere, verosimili o false siano. Ci affidiamo al nostro hardware esterno per salvare le centinaia di foto scattate la scorsa estate, dice Montesano, ma non applichiamo più la memoria selettiva per salvare (stampare) le tre che sono veramente importanti. E ci affidiamo a strumenti che abbiamo creato noi, ma che, oltre che soggetti ad obsolescenza (anche programmata), finiremo per non sapere neanche più come sono fatti.

Lettura profonda, conoscenza, curiosità, spirito critico, atteggiamento empatico, capacità di riconoscere, accettare e interagire col diverso, e quindi libertà, democrazia: tutto si tiene allora, tutto è legato in modo inestricabile e ci riguarda da vicino se vogliamo difendere il mondo in cui abbiamo vissuto e preparare un futuro per i nostri ragazzi.

 

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