dall'Archivio

Cento volte Manzi Nel centenario della nascita di Alberto Manzi, maestro e scrittore

Pubblichiamo questo articolo di Donatella Trotta dal nostro archivio (Andersen n. 411, aprile 2024) dedicato alla figura di Alberto Manzi, in occasione di Educare alla lettura 2026, progetto promosso dal Salone del Libro con Cepell – Centro per il libro e la lettura e la direzione scientifica di Simone Giusti e Giusi Marchetta: un percorso focalizzato sull’orientamento e l’educazione civica per insegnanti di ogni ordine e grado, interessati ad approfondire conoscenze e competenze nell’ambito della letteratura per ragazzi e nella formazione dei ragazzi al piacere della lettura. La riflessione sull’educazione che emerge da questo articolo diventa materiale di approfondimento per i corsisti di questo percorso formativo al quale contribuisce anche la nostra rivista con consigli di lettura e idee da esplorare. Per sostenere il lavoro della nostra rivista e per leggere insieme a noi tutto l’anno, visita il bookshop e sottoscrivi un abbonamento! 

Solo chi è animato dall’amore è veramente vivo (Alberto Manzi, El loco

«In fondo scrivo perché sono un rivoluzionario, inteso nel senso profondo della parola. Per cambiare, per migliorare, per vivere pensando sempre che l’altro sono io e agendo di conseguenza, occorre essere continuamente in lotta, in rivolta contro le abitudini che generano la passività, la stupidità, l’egoismo. La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, all’insolenza dell’autorità incontestata, alla compiacente idolizzazione di sé e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare».

A pronunciare queste parole potenti non è l’uomo in rivolta di Albert Camus. E nemmeno il Gianni Rodari di Educazione e passione (testo pubblicato su «Il Giornale dei Genitori» n. 11-12, 1966, poi in Scuola di fantasia, Einaudi 2014): ma un personaggio complesso, poliedrico, coraggioso e ribelle, con uno sconfinato orizzonte di interessi culturali, filosofici, pedagogici e scientifici e un altrettanto vasto, tenace e concreto impegno civico, politico e di ricerca sul campo. In Italia e all’estero. Uno a cui Il tempo non basta mai, come ricorda la figlia ultimogenita Giulia nel suo omonimo e toccante libro-memoir (Add 2014) su “una vita, tante vite” del padre: Alberto Manzi. Un uomo decisamente a più dimensioni, il “maestro d’Italia” Manzi (nato a Roma il 3 novembre 1924, morto il 4 dicembre 1997 a Pitigliano, in provincia di Grosseto, dove è stato sindaco dal 1995), nel quale come ricorda il figlio Massimo «Il fare ha sempre scandito la filosofia di pedagogo». In direzione ostinata e contraria a quell’unidimensionalità preconizzata e deprecata da Herbert Marcuse nel suo L’uomo a una dimensione (1964). 

Perché Alberto Manzi (di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, con una serie di iniziative improntate al suo stile antiretorico, partecipato dal basso e gener/attivo) è stato innanzitutto, autenticamente e ben prima di una sbandierata globalizzazione, cittadino del mondo. Da insegnante, pedagogista, scrittore, poeta, a suo modo antropologo culturale, innovativo divulgatore scientifico e umanista, nonché cooperatore internazionale ante litteram e attivista politico. Dalla parte degli ultimi. Ma soprattutto, Maestro. Di scuola e di vita. Che ha fatto scuola. Rivoluzionando (appunto) cliché stantii sull’istruzione. In anni in cui da Nord a Sud del Paese la lotta alle diseguaglianze passava anche attraverso un’alfabetizzazione democratica (infantile e adulta) e non convenzionale, con guide magistrali di uomini pressoché coetanei di Manzi: come i protagonisti del Movimento di Cooperazione Educativa con Mario Lodi, stimato amico di Rodari (con cui Manzi collaborò al «Vittorioso»), e poi don Lorenzo Milani, Danilo Dolci…

Un incessante percorso pedagogico che, se nell’immaginario collettivo dei baby boomers lega la fama di Manzi soprattutto alla celebre trasmissione tv dei programmi Rai di Telescuola Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta (che con le sue 484 puntate, da lui curate con lo sceneggiatore Oreste Gasperini e, per 70 lezioni del secondo corso, con l’insegnante Carlo Piantoni dal 15 novembre 1960 al 10 maggio 1968, ha istruito a distanza oltre 1 milione e mezzo di italiani), inizia sin dal primo incarico di docenza (rifiutato da altri colleghi). È il 1946. Presso il riformatorio romano “Aristide Gabelli” arriva il 22enne Alberto Manzi, che si trova ad affrontare le sfide non soltanto educative di una classe di 94 allievi “devianti”, tra i 9 e i 17 anni, vincendone ostilità e diffidenze iniziali e realizzando con loro persino un giornale mensile («La tradotta»), primo nel suo genere in un istituto di rieducazione. Una collaborazione feconda, quella con i giovani detenuti, da cui nasce la storia che ispirerà nel 1950 il primo romanzo per ragazzi di Manzi, Grogh, storia di un castoro: premio Collodi assegnato da giurati quali Ignazio Silone, Corrado Alvaro, Cesare Zavattini. Successo che nel 1955 accompagnerà anche la pubblicazione del romanzo Orzowei, il suo libro di maggior successo, pluritradotto, premio H.C. Andersen nel 1956 e divenuto negli anni ’70 anche omonima serie per la TV dei ragazzi con la regia di Yves Allegret.

Non solo. Dagli anni ’50, tra impegni universitari nel campo della psicologia didattica, insegnamento (dal 1954) nella scuola elementare Fratelli Bandiera di Roma, pubblicazioni molteplici accanto a innovativi programmi didattici radiotelevisivi, il maestro d’Italia intraprende anche viaggi di ricerca in Sud America, nella zona orientale della foresta amazzonica. Un’esperienza radicale, trasformante: dapprima da ricercatore incaricato dall’Università di Ginevra allo studio di particolari formiche poi, per circa 30 anni, per alfabetizzare Indios e campesinos poveri e sfruttati di cui Manzi abbraccia subito con trasporto la causa, a tutela dei loro diritti calpestati. Anche a costo di essere considerato, come capiterà, un sovversivo: proprio come i teologi della Liberazione di cui condivide l’esperienza. Sono pagine assai avventurose della sua esistenza, che confluiranno in una intensa quadrilogia di romanzi sudamericani: La Luna nelle baracche (1974), El Loco (1979) editi da Salani; E venne il sabato e Gugù, pubblicati postumi nel 2005 da Gorée. Nel 1987, Manzi viene chiamato dal Presidente argentino Raul Alfonsin a tenere un corso di formazione per elaborare il Piano Nazionale di Alfabetizzazione sul modello di Non è mai troppo tardi. Manzi capì che doveva usare la radio, più che la tv: e fu il miglior programma di alfabetizzazione adottato in tutto il Sudamerica, Premio Unesco nel 1989.

“Alfabetizzare”, “Essere-insieme”, “Raccontare”: tavole di Alessandro Sanna dalla mostra “12 verbi e 12 illustrazioni” promossa dal Centro Alberto Manzi

 

«Alberto Manzi è stato sempre, in primo luogo e per sua scelta, un maestro: impegnato con lucidità e coerenza a fare la sua parte e a stare fino in fondo nelle cose che contano davvero» sottolinea Alessandra Falconi, responsabile del Centro Alberto Manzi di Bologna che coordinerà gli eventi del Centenario e che conserva tutto il suo archivio, donato dalla vedova Sonia Boni Manzi inizialmente all’università di Bologna – d’intesa con Andrea Canevaro, pedagogista attento all’inclusione sociale – dopo la morte di Manzi: anche in seguito alla sua ultima, generosa intervista (del 13 giugno 1997) rilasciata al pedagogista Roberto Farné a Pitigliano. «Quasi un testamento. Per un Centro mai stato “solo” un luogo di studio musealizzato – aggiunge Falconi – bensì un grande progetto-incubatore attivo e interattivo di partecipazione collettiva, che con un continuo passaggio di testimone mette la vita e i materiali di Manzi (offerti gratuitamente) in dialogo con chiunque voglia attivare nuovi progetti ed essere supportato nel cammino». Non a caso, dal 2008 il Centro Alberto Manzi si è trasferito nella sede istituzionale dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna in Viale Aldo Moro 50 a Bologna, per volontà dell’Assemblea stessa che ha rilanciato un accordo con l’Università di Bologna, la Giunta regionale, la Rai e il MIUR per trasformare l’archivio Manzi in «cuore propulsore di progetti e iniziative per i cittadini e le cittadine». Un “cuore pensante” che, mettendo al centro le scuole, gli insegnanti, i bambini e le bambine «potenzia così un modello educativo fondamentale alla coesione sociale delle comunità locali». In pieno stile del Maestro d’Italia.

Ma guai a parlare di “metodo Manzi”, mette in guardia Falconi: «I metodi sono pericolosi, diceva, perché offrono ricette pronte impedendo alle persone di pensare, essere curiose, porsi interrogativi, guardare da punti di vista inediti con sguardi divergenti e creativi. Con parole vere, aliene da facili compromessi, comode scorciatoie, fumosi labirinti intellettuali, Manzi ha così educato a pensare generazioni intere. Fornendo strumenti di accesso ai saperi e alla conoscenza come coscienza di sé e corresponsabilità del mondo, in una dimensione allargata dall’”io” al “noi” di cui è stato facilitatore e garante, da uomo dotato di un alto senso di giustizia, incapace di vivere solo per sé stesso o, peggio, di agire per convenienza personale, ma orientato invece ad accettare sfide sempre nuove. Entrando in empatia con tutti i contesti e le persone con cui interagiva, con curiosità gioiosa e mai giudicante. E legando sempre la dimensione individuale con quella comunitaria». Un uomo, insomma, che non offriva risposte preconfezionate ma suscitava domande (e ribellioni) non scontate. Anche a costo di pagare di persona: come nel caso della sua nota disobbedienza civile alle schede di valutazione a inizio anni ‘80 (punita dal ministero con 4 mesi di sospensione, anche dello stipendio) da lui liquidata con un timbro provocatorio per tutti: «Fa quel che può, quel che non può non fa». Sintesi ironica della sua lezione di coraggio altruistico, libertà controcorrente e moralità universale che resta attuale, ancora oggi. Echeggiata da questi versi, scritti da Manzi nel 1983: «… perché così non saremo uno,/ soli, sotto il tacco del potere/ ma noi, tutti, un uno plurimo/ che cantiamo la gioia/ di essere uomini». 

Per i docenti: Andersen è uno strumento fondamentale per accompagnare i percorsi di educazione alla lettura, portando in classe le ultime novità editoriali, con materiali di approfondimento e spunti operativi. Il Ministero prevede anche quest’anno un rimborso del 90% per le scuole che decidono di attivare abbonamenti a riviste e quotidiani entro il 28 febbraio 2026. Come fare? Vi spieghiamo passo passo la procedura. 

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