L'ARTICOLO DEL MESE

Com’è triste Venezia di Tito Vezio Viola – con un intervento di Nicola Fuochi

I libri per bambini negli ultimi mesi sono balzati in cronaca per via della presa di posizione censoria del neosindaco di Venezia Luigi Brugnaro a proposito del progetto “Leggere senza stereotipi”, percorso bibliografico e formazione, che ha portato nei nidi e nelle scuole dell’infanzia alcuni libri, poi tolti perché tacciati di essere “favole gay”. Il mondo della scuola e della cultura è insorto, molte le iniziative (petizioni di autori, letture pubbliche…), tanti gli articoli sui giornali in Italia e all’estero. Noi, oltre alla lettera del direttore pubblicata sui social il 10 luglio, abbiamo chiesto una riflessione a Tito Vezio Viola, bibliotecario di Ortona (CH) da sempre attento alla cultura dell’infanzia, e una testimonianza a Nicola Fuochi, della libreria “Il libro con gli stivali” (quest’anno insignita del Premio Roberto Denti) che a Venezia opera.
La decisione di Brugnaro non è che la punta visibile dell’iceberg: un brutto dito, che indica una discutibile luna. L’infanzia appare sempre più confinata, nella percezione sociale, dentro i confini concettuali di “problema”; senza assegnarle, invece, capacità di scelta e di esprimere protagonismo e cittadinanza.

Nel mese di luglio il neosindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha conquistato una certa notorietà sulla stampa nazionale ed internazionale a seguito del suo intervento sommariamente censorio nei confronti di una lista di 49 libri per bambini, destinati al supporto educativo nell’ambito di un progetto sulla diversità di genere, sulle nuove famiglie, sulle differenze culturali nei nidi e nelle scuole dell’infanzia comunali. Decidano le famiglie quando e se farli leggere ai propri figli, dato il pericoloso argomento, altro che essere utilizzati dagli insegnanti! Questa posizione ha fatto indignare molti, ha in altri provocato sonore risate con commenti, articoli, lettere e petizioni: tra quei libri figurano Piccolo blu e piccolo giallo e Guizzino di Lionni, autori come Mario Ramos, Isabella Paglia, Altan, Nicola Cinquetti, Michael Rosen e tanti altri, che non hanno certamente bisogno di difese e spiegazioni. Del resto, qualche giorno dopo, la “toppata” deve essere stata talmente evidente che lo stesso sindaco, dal suo punto di vista, ha fatto un passo indietro, peggiorando se possibile però la situazione: “…è intenzione dell’amministrazione comunale esaminare con cura e obiettività i testi, non distribuendo quelli inopportuni per i più piccoli” ha dichiarato in una conferenza stampa, aggiungendo poi una piena riabilitazione di Lionni, mentre “le riserve riguardano Piccolo uovo di Francesca Pardi o Jean a deux mamans di Ophelie Texier”. Conclude il nostro: “Sarà un lavoro di analisi fatto con cura e attenzione, anche approfittando del periodo estivo e delle vacanze scolastiche” (l’intera dichiarazione è consultabile qui). Se voleva essere un segno d’ascolto è invece un segno ancor peggiore del primo: immagino i suoi consiglieri impugnare la matita copiativa con “cura e obiettività” facendo le pulci ai  libri a caccia di inopportunità, ed infine stilare le liste definitive: quella alla quale apporre il “cum licentia superior” e quella da mettere all’indice. Climi da antica inquisizione, o dei più recenti Uffici Stampa del Minculpop. C’è da sganasciarsi dalle risate e indignarsi più per questo secondo intervento che per il primo il quale, alla fin fine, poteva essere motivato (non scusato, ovviamente) nell’ambito di una logica ventralmente propagandistica per il consenso a tutti i costi, con maestri in giro ben più noti del sindaco veneziano.

Detto questo, però, penso sia utile provare a tracciare un oltre l’impatto mediatico di questa vicenda,  tratteggiando quelle radici culturali che essa può rappresentare ed in qualche modo evitando l’errore di considerarla una boutade isolata. Mi sembra che in profondità ci sia una visione dell’infanzia ben coerente e sempre più diffusa nel nostro paese per la quale il lodo Brugnaro non è che la classica punta visibile dell’iceberg: un dito, un brutto dito, che indica la luna, una discutibile luna.

Infatti da una ventina d’anni l’infanzia appare sempre più confinata, nella percezione sociale ed anche sempre più spesso nel proporsi delle istituzioni, dentro i confini concettuali del “problema”; di bambini se ne parla quasi esclusivamente in occasione di emergenze, restituendo l’idea di soggetti quasi esclusivamente destinatari di cura e di assistenza e molto meno capaci, invece, di esprimere protagonismo e cittadinanza alla pari con l’intera comunità di vita e dotati di capacità di scelta sui valori e sui significati esistenziali.

I due luoghi nei quali, ormai, i bambini prevalentemente stanno e soggiornano (la famiglia e la scuola) vengono inoltre caricati di responsabilità alcune delle quali sono insostenibili. Ogni problema generale al quale governi e istituzioni faticano (o non sanno) dare risposte efficaci diventano immediatamente carichi pendenti ad esse destinati. Problema della mafia? La scuola deve educare alla legalità! (il fatto che i dati ci raccontino dell’aumento della corruzione negli edifici comunali affianco alle stesse scuole sembra non entrarci niente con i modelli sociali e comportamentali che si propongono). I bambini passano troppo tempo tra computer e televisione? La famiglia deve intervenire! E così via.

Accanto a questo la concentrazione degli interventi pubblici e privati, ed anche certe culture professionali e programmatorie di chi si occupa dei servizi per l’infanzia, sembrano essere prevalentemente rivolti al bambino nella ricerca di soluzioni ai suoi problemi singoli, ed in questo nella sua dimensione privata di persona bisognosa di qualcosa, e non di persona che è in grado di essere un cittadino protagonista, il cui esercizio di cittadinanza va considerato a pieno titolo, persona in grado di restituire alla comunità una presenza arricchente e originale.

Insomma da bene della collettività – “per educare un bambino ci vuole un intero villaggio” recita un detto africano – l’infanzia sembra sempre più confinata nella dimensione del bene esclusivamente privato portatore di bisogni. Basti pensare ad un segno linguistico ricorrente ormai da un ventennio e più: quello di appellare i bambini, parlando di loro nei luoghi educativi  ed istituzionali, con il termine di “minori”, ai quali cioè manca qualcosa per essere “maggiori” (cfr. Bambini, non minori di Carmen Rasori, Roma 1997). Infatti il più bel complimento che ricorre nelle cerimonie pubbliche, dai discorsi di fine anno scolastico ai saluti delle autorità nei convegni vari, è che i bambini siano cittadini di domani, incapaci in quanto minori evidentemente di essere cittadini di oggi, cioè di scegliere sensi ed etiche, e di partecipare alla vita pubblica della comunità. Aspettiamo che diventino buoni cittadini, che votino, e poi parteciperanno anche loro, nel frattempo “alleviamoli” a questo, curiamoli tutorandoli nella loro dimensione di crescita per aspetti altri che quelli della cittadinanza e del protagonismo della comunità.

Questi segni mi sembra siano particolarmente indicativi di un progressivo confinamento dell’infanzia verso la sua dimensione esclusivamente privata anche attraverso alcune culture di tipo istituzionale, sulle quali non mi dilungo, che sottraggono responsabilità e risorse all’intero villaggio (la scuola, le biblioteche), spostandole verso le singole capanne sulle quali si rovesciano compiti insostenibili, come quelli di far loro scegliere i libri utili all’educazione dei propri rampolli e costruirne il senso di cittadinanza. Eppure il nostro paese è stato all’avanguardia, fino al passaggio del millennio, in azioni e programmi che hanno posto i bambini al centro di un protagonismo educativo dialogante e di valore per l’intera comunità, in forte coerenza con esperienze europee. Si pensi alle esperienze de La città di bambini di Francesco Tonucci, nelle quali la progettazione partecipata di realtà urbane  con i bambini concretizzava quel principio per il quale “una città a dimensione di bambino è una città migliore per tutti”, sviluppandosi intorno ad una condivisione delle responsabilità da parte della scuola, dei genitori, delle amministrazioni locali che insieme ai bambini, e su loro proposta, contrattavano modifiche urbane di qualità. Una condivisione alla pari che non era più un “esercizio d’allevamento”, bensì una vera e propria azione formativa nella quale tutti (dai bambini ai sindaci) imparavano ad ascoltare le idee e le esigenze altrui con ogni differenza e diversità possibile, come abitanti titolari alla pari del proprio villaggio. Così come Carlo Pagliarini ed il suo programma di “Democrazia in Erba” con i consigli comunali dei ragazzi, la “Città in tasca” dell’Arciragazzi, “Adottiamo la città” di Legambiente, perseguivano quei diritti di partecipazione sanciti dalla Convenzione sui diritti dei bambini di New York (1989) e poi recepiti con una legge dello Stato (la Legge n. 285/1997) che ha provveduto a finanziare per alcuni anni iniziative di qualità su questo tema, collocate fino a qualche tempo fa nel Piano Nazionale di azione per l’Infanzia (PNI) che periodicamente il Governo promuove. Ma ecco che fin dal 2005 i fondi finalizzati alla  consultazione sistematica dei bambini “durante la procedura di formazione delle leggi e delle decisioni che li riguardano, a livello nazionale, regionale o locale”, (Comitato ONU per l’Infanzia, 2011) progressivamente vengono concepiti come un costo e quindi tagliati, fino al PNI del 2011 nel quale la partecipazione è stata definitivamente espunta come tema a sé stante, concentrando le risorse sull’emergenza e sul disagio, in genere all’interno dei piani sociali territoriali. Ancora un indirizzo che si muove nell’ambito dei problemi conclamati dalle singolarità bambine, privo di una dimensione partecipativa di cittadinanza che sicuramente opera, anche sul piano sociale, la migliore prevenzione possibile al disagio.

In questo percorso culturale e istituzionale il bambino privato-tutorato-assistito è anche privato di tutte quelle occasioni di confronto con le differenze più differenti, ma principalmente è privato della fiducia, da parte dell’adulto “maggiore”, di riconoscergli la cittadinanza come ascolto e di consegnargli adulti che hanno precise responsabilità nei suoi confronti: per affettività, saperi, ruolo istituzionale e quant’altro, ognuno con le sue funzioni e competenze. In questo la scuola e le biblioteche hanno una funzione ancora efficace fondamentale, anche se non possono supplire da sole a quella del villaggio in un paese nel quale  il ruolo della conoscenza è privato di valore sociale, e ne sono segni la continua sottrazione di risorse a questi luoghi (la famosa battuta ministeriale “con la cultura non si mangia”): dai nidi ai progetti di ricerca, alle biblioteche, ai servizi di formazione e culturali degli enti locali. Spese da tagliare per prime in fase di crisi.

La vicenda di Venezia, quindi, penso vada considerata anche alla luce di questi elementi. E’ la quinta di uno spettacolo di ben più profonde radici nel quale le responsabilità istituzionali e di competenza si confondono tra loro, frutto della modificazione dello statuto dell’infanzia confinandola in un nuovo modello educativo del “travaso” per il quale, mentre nella storia otto/novecentesca era l’insegnante a decidere il cosa e il come, oggi può essere anche un sindaco.

Il pregiudizio che i bambini non possano capire perché immaginati da soli in una dimensione tutta di tutoraggio delle loro problematiche private (e chi potrebbe capire in questi confini?), è la cultura che supporta questi atteggiamenti diffusi, aprendo strade a interventi di contenuto da parte di chiunque. Del resto non è stato un Ministro a escludere dalla scuola pubblica i programmi di studio sull’evoluzionismo animale ed umano? Invece insegnanti, bibliotecari, educatori e tanti genitori sanno bene che i bambini hanno cento mani, cento lingue, cento pensieri, come scriveva Loris Malaguzzi, sanno bene che il cento c’è con tutte le diversità e le differenze. O siamo con loro, dai genitori agli insegnanti ai sindaci, imparando insieme il cento che c’è, oppure gliene togliamo novantanove, stilando arbitrariamente le liste del male e del bene.

Essere librai a Venezia
di Nicola Fuochi, libreria “Il libro con gli stivali” di Mestre
La polemica nata intorno ai libri del progetto Leggere senza gli stereotipi ci ha portato a riflettere una volta di più sul nostro ruolo di librai per ragazzi e il nostro modo di interpretarlo.

A chi negli ultimi anni ci chiedeva se i libri piacessero, se i ragazzi leggessero, o semplicemente quanto difficile fosse essere librai oggi, abbiamo sempre risposto con ottimismo, sottolineando gli aspetti positivi che non mancano. Certo, le difficoltà sono enormi, e il fatto che la nostra libreria, la Libreria “Il libro con gli stivali”, abbia compiuto quest’anno nove anni non ci pone al riparo dai problemi che, nascosti dietro ogni angolo, potrebbero in qualunque momento mettere in crisi il nostro progetto; tanto risicati sono i margini di guadagno in un’impresa commerciale come una libreria, tanto difficile il raggiungimento e il mantenimento di un’equilibrio in una città di dimensioni medio-piccole, che solo un atto di incoscienza potrebbe portarci a vedere il mondo in modo idillico.

Fatta questa doverosa premessa, non possiamo però dimenticare i cambiamenti che abbiamo potuto registrare da quando abbiamo aperto la libreria; tutti cambiamenti di segno positivo. Sono lontani i tempi in cui riuscire a vendere libri con illustrazioni alla Sendak o alla Ponti rappresentava quasi un evento. Le persone hanno poco a poco apprezzato una proposta che si poneva programmaticamente al di fuori degli schemi più triti; hanno accettato di farsi consigliare, magari forti dell’esperienza di altri genitori, anche quando i libri proposti le lasciavano un po’ perplesse, per poi tornare soddisfatte; si sono incuriosite a proposte in cui parole e immagini concorrevano a una sfida narrativa in grado di misurarsi con il vissuto quotidiano, accettando anche il rischio che in prima battuta il libro risultasse un po’ difficile. Il risultato di questo lavoro abbiamo imparato a misurarlo nell’affetto di cui sentiamo circondata la libreria.

Eppure il passo indietro che il territorio veneziano ha compiuto quest’estate, ad opera del nuovo sindaco, non rappresenta una doccia gelata, non un fulmine a ciel sereno. Perché il confronto col mondo della scuola non è mai venuto meno, e abbiamo sempre percepito delle sacche di resistenza alle nostre proposte; perché sappiamo che ci sono molte persone che non varcano la soglia della libreria. Qual è allora il punto in questione? Che noi abbiamo ragione e gli altri devono imparare ad accettare il nostro punto di vista? Oppure che noi dobbiamo adeguarci al loro? Porre la questione in questi termini non è solo sbagliato in sé; si tratta di un approccio da rifiutare perché pone tutta la questione in una prospettiva errata.

Il ruolo di una libreria consiste nel proporre letteratura, possibilmente offrendo un contributo alla creazione di nuovi lettori. Contrariamente alle insinuazioni fatte nei giorni della polemica, non lo facciamo per chissà quali interessi economici o conflitti di interesse; al di là delle passioni personali, dietro a tutto questo c’è la convinzione di un’importante funzione sociale delle storie di narrazione nella formazione di un senso di comunità condivisa, di appartenenza a una società solidale: è un dialogo finalizzato a mettere in comunicazione le persone in modo profondo.

L’iniziativa del Sindaco di Venezia, nei primissimi giorni del suo insediamento, rattrista perché parte dal presupposto che i bambini non vadano educati all’apertura e all’accettazione, che non si debba trasmettere loro fiducia nel prossimo; al contrario favorisce un senso di rifiuto a priori, di paura del prossimo, diffidenza e, in ultima istanza, contrapposizione: se non la pensi come me, allora ti rifiuto.

Crediamo che la migliore letteratura per ragazzi si sia sempre contrapposta a una simile visione: quello che fatichiamo a far comprendere è che difendere i libri del progetto Leggere senza gli stereotipi per noi significa difendere la nostra stessa ragione d’essere. Perché domani potrebbe toccare ad altri libri: quanti titoli ben più sovversivi rispetto a quelli messi all’indice affollano i nostri scaffali? Visto che più di una volta a questi titoli è stata contrapposta la virtuosità dei classici, cosa direbbe il Sindaco Brugnaro se leggesse i Consigli alle bambine di Mark Twain? Per non parlare dell’irriverenza graffiante di Collodi nel suo Pinocchio, pure citato come libro “sano” da contrapporre a quelli colpevoli di insinuare nelle menti dei bambini il tarlo di ideologie omofile.

Arriviamo quindi al punto fondamentale: non sono i libri a educare. Senza voler entrare in un campo che non mi compete, direi che l’educazione presuppone un rapporto vivo, fatto di una persona che comunica, con l’esempio più che con le parole, a un’altra persona. Le storie sono altra cosa: occasione di confronto, di riorganizzazione dei significati, di introspezione e di contatto con l’altro. Questo è vero sempre, ma tanto più quando si parli di buona letteratura per ragazzi, per la quale è richiesta agli autori un’aggiunta di rispetto e onestà per i propri lettori. I libri del progetto possono piacere o non piacere, ma a nessuno di essi può essere imputata disonestà, nessuno può essere considerato ideologico. Tanto meno due tra i titoli maggiormente contestati, ovvero Piccolo uovo di Francesca Pardi (ed. Lo stampatello) e E con Tango siamo in tre di Peter Parnell e Justin Richardson (ed. Junior), rari esempi di delicatezza ed equilibrio. Sostenere quindi che questi libri non debbano entrare a scuola perché di certi argomenti la scuola non deve parlare, quali ad esempio rispetto e accoglienza, evidentemente, rappresenta non solo una strana ingerenza nei contenuti dell’insegnamento, ma una spinta alla chiusura che va nella direzione opposta al nostro ruolo.

Non ce ne voglia quindi il sindaco Luigi Brugnaro se, mantenendo sempre la disponibilità al dialogo, la porta aperta e la mano tesa, continueremo a esprimere una visione diversa dalla sua.

lionni