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In nome di Cita di Anselmo Roveda

In nome di Cita

[da Andersen 294 – luglio/agosto 2012, numero speciale monografico dedicato a Tarzan, in occasione dei 100 anni dalla prima pubblicazione del romanzo di Edgar Rice Burroughs] – Il popolarissimo scimpanzé che accompagna Tarzan è un’invenzione hollywoodiana. Non è l’unica scimmia protagonista del Novecento, oltre che sul set ne troviamo anche nei laboratori di scienze cognitive e sulle capsule spaziali. Colpa di Darwin?

Cita, o a scriverla all’inglese Cheeta, non esiste. Il maniacale studioso americano David A. Ullery, autore di centinaia di pagine su Tarzan (The Tarzan Novels of Edgar Rice Burroughs: An Illustrated Reader’s Guide, 2001), ricorda che di Cheeta, nei romanzi e nei racconti di Edgar Rice Burroughs dedicati al signore della giungla, non compare alcuna traccia. Nessuno scimpanzé nel ruolo di compagno d’avventura, tanto meno di nome Cita; al massimo si può rintracciare una scimmietta di nome Nikima in non più di cinque storie (prima apparizione in Tarzan and The Lost Empire, 1928; a proposito di città e civiltà perdute trovate in queste pagine un articolo di Stefano Trucco). Cita è una fortunata invenzione dei produttori di Hollywood. Dopo una decina di film muti, nel 1932 debutta la serie di film di Tarzan con sonoro. È la serie che consacra e diffonde il mito di Tarzan, è quella interpretata da Johnny Weissmuller e distribuita da MGM, ma è anche la ribalta di Cita. Da lì in poi, pure nelle produzioni non MGM, la bestiola – e con lei i suoi simili (anche quando ‘interpretati’ dal bambino-prodigio David Holt, opportunamente travestito e rigorosamente non accreditato, come nel caso di Tarzan The Fearless, 1933) – conquista il pubblico e diventa una costante.

Nei decenni e nelle decine di film a venire molti saranno gli scimpanzé utilizzati come attori; una menzione la merita però Jiggs, esemplare maschio nato nel 1928, interprete del debutto cinematografico di Cita e primo di una lunga serie (Jiggs Jr. o II, e poi Jiggs III e IV) di analoghi primati allevati e addestrati da Tony e Jacqueline Gentry. Stessa schiatta alla quale fa riferimento la polemica intorno alla morte, annunciata a Natale del 2011 (per reperire fonti?), di uno scimpanzé per qualche tempo spacciato per l’ormai inverosimilmente ottuagenario Jiggs/Cita interprete dei film anni ‘30. Anche il “Corriere della Sera”, per restare in Italia, si bevve la storia e la raccontò per vera. La presunta Cita fu pianta ricordando la sua passione per la pittura e l’affabilità con gli umani. Chi ebbe la sorte di lavorare sul set con alcune delle scimmie dei Gentry ha ricordi assai più ‘mordaci’. Longevità millantata e trovata mediatica a parte, resta il fatto che il mito di Cita ha fatto compagnia a molte generazioni, entrando prepotentemente nell’immaginario collettivo tanto da originare pochi anni fa il libro Me Cheeta (2009), asserita autobiografia dello scimpanzé firmata dallo scrittore britannico James Lever.

Il Novecento è stato allora in qualche modo anche il secolo delle scimmie. La ormai generalizzata condivisione della teoria darwiniana del secolo precedente ha infatti contribuito non poco a far considerare i primati nostri parenti stretti; cugini pronti a suscitare fantasie – basti ricordare al cinema King Kong (1933) e in letteratura Il pianeta delle scimmie (1963) di Pierre Boulle – e speranze, talvolta ad essere usati come surrogati al posto degli esseri umani. Così, oltre a calcare le scene e diventare stelle dello show biz, i primati entrano nei laboratori sperimentali di scienze cognitive e del linguaggio e nella corsa alla conquista dello spazio. Oltre ai divi del cinema tipo Jiggs, non mancano le star del piccolo schermo: da Zippy The Chimp – scimmia performer ospite di show televisivi USA negli anni ‘50 e ‘60, tanto popolare da meritare un servizio fotografico di Michael Rougier per la rivista “Life” – agli scimpanzé protagonisti della serie Lancelot Link, Secret Chimp mandata in onda nei primi anni ‘70 dal network americano ABC e poi arrivata in Italia col nome Lancillotto 008, con sigla di Lino Toffolo. Assai meno agghindate di quelle televisive e impegnate in più serie sessioni di laboratorio, le scimmie utilizzate negli anni nelle università americane per gli studi sul linguaggio: dagli scimpanzé Nim Chimpsky e Washoe, al bonobo Kanzi, al gorilla Michael Puig capace di comunicare con la lingua dei segni.

Altre, forse meno fortunate, sono finite nei laboratori di scienze cognitive e del comportamento. Noto in letteratura psicologica l’esperimento di Harry F. Harlow. Tra gli anni ‘50 e l’inizio dei ‘60 lo psicologo americano isolò alcuni cuccioli di macaco dalle madre e li mise in gabbia con due possibili sostituti materni: uno caldo, morbido, di peluche, che non dava latte; l’altro freddo, metallico, che dispensava latte. I piccoli macachi in diverse situazioni (stress, bisogno di conforto) preferivano il surrogato materno di peluche, mentre ricorrevano a quello metallico solo per i bisogni alimentari. Harlow dimostrò, corroborando la teoria dell’attaccamento da lì a breve organizzata da Bowlby, che il legame di attaccamento madre-figlio non è esclusivamente un rapporto strumentale finalizzato all’ottenimento di cibo. Ma le scimmie, in quanto nostri cugini, continuano a essere usate in laboratorio. In Italia è attiva l’Unità di Primatologia Cognitiva afferente al CNR. Gli studiosi italiani, diretti da Elisabetta Visalberghi, hanno recentemente dimostrato, è notizia di gennaio 2012, ad esempio, che la comprensione delle caratteristiche funzionali di un oggetto – capacità non innata e alla base dell’uso flessibile di strumenti, nell’uomo avviene entro i 3 anni – è presente anche nei cebi dai cornetti, delle scimmiette sudamericane.

Forzatamente coraggiose invece le scimmie astronauta. Nella corsa allo spazio ingaggiata tra americani e sovietici toccò agli animali fare da apripista; tutti conosciamo l’eroica cagnetta Laika lanciata dai russi sullo Sputnik 2 nel 1957. Meno nota la storia di Ham The Astrochimp. Gli americani – che già avevano spedito nello spazio suborbitale qualche macaco – risposero quattro anni dopo con il lancio, e seguente recupero, di uno scimpanzé. Ham, nato in Camerun nel 1956, fu acquistato dalla U.S. Air Force e selezionato tra quaranta scimpanzé per il programma Mercury. Il 31 gennaio 1961, nell’ambito della missione MR2, partì dalla base di lancio di Cape Canaveral per un volo suborbitale di 16 minuti e 39 secondi. Il volo finì in gloria, con il recupero in pieno oceano della capsula e di un Ham visibilmente frastornato. Nelle foto d’epoca i militari sembrano assai più fieri dell’eroe della missione. Curiosamente, è il caso di dire, la missione fu preceduta, di quattro anni e in letteratura per l’infanzia, da una analoga avventura spazial-scimmiesca. È presentata in uno dei volumi storici della serie “Curious George” di Margret e H.A. Rey: Curious George Gets a Medal (1957).

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