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David Walliams di Martina Russo

Dal teatro e dall’irriverente comicità di Little Britain fino al successo come autore di libri per l’infanzia, passando da tv, cinema e impegno filantropico.

David Walliams leggevo che ero

Fotografia di Mara Pace per Leggevo che ero

L’intervista è stata pubblicata su Andersen n.348. La rendiamo disponibile online in occasione del Festivaletteratura 2018, che avrà l’autore tra i suoi ospiti. Sostieni Andersen con un abbonamento.

C’è chi lo conosce come comico, chi come conduttore televisivo, chi, ovviamente, come scrittore per l’infanzia. David Walliams – blasfemia che potrebbe strappargli un sorriso – è uno e trino: autore e attore della fortunata serie di sketch comici Little Britain, andata in onda dal 2003 al 2006 sulla BBC, prima in radio poi in tv, dal 2012 è anche giudice di Britain’s Got Talent, versione inglese della popolare sfida tra talenti da palcoscenico.E poi, David Walliams, è uno scrittore. Lo è diventato, quasi per caso, nel 2008, quando, un po’ per far pace col passato, un po’ per rispondere all’esigenza e all’urgenza di raccontare questa storia, ha messo nero su bianco le vicende di un ragazzino che decide di andare a scuola vestito “da femmina”. Inizia tutto con The boy in a dress, insomma, e procede con Mr. Stink (pubblicato in Italia da Giunti), Giò il miliardario, Nonna Gangster, Polpette di topo, Zia Malefica e, ultimo arrivato in Italia, Dentista diabolica (tutti editi da Ippocampo), per un totale, in patria, di dodici titoli dissacranti e gustosamente irriverenti, dove a farla da padrone è il contrasto tra adulti crudeli e bambini ribelli, risolto con fragorose risate.
È con sorriso sornione – e l’offerta del thé delle cinque, of course – che David Walliams ci ha accolto nel salotto dell’hotel bolognese che lo ospitava, quasi in sordina, nei giorni della Fiera del libro per ragazzi: lo avevamo avvisato, lo avremmo fotografato con il suo libro d’infanzia, e allora ecco che l’intervista la fa tenendo sempre fra le mani la piletta di titoli che si è portato, dove campeggiano i libri di Dr. Seuss e Roald Dahl. Già, Roald Dahl.

Ecco, sei stato spesso paragonato a Roald Dahl, e più volte hai raccontato di essere un suo lettore appassionato. In effetti, un po’ come succede nei suoi libri, anche nelle tue storie ci sono adulti terribili – che non esitano ad uccidere un criceto o i genitori della nipote – ma, allo stesso tempo, non mancano mai anche bambini altrettanto terribili.
Roald Dahl è in assoluto il mio autore preferito, e poi era un personaggio estremamente interessante. Quando ero ragazzo c’era questa serie, “Tales of Unexpected”, di cui non mi perdevo una puntata. Lui compariva lì, sullo schermo, a presentare i singoli racconti, con quel fare affascinante che lo rese noto a tutto il pubblico britannico e probabilmente anche al di fuori dei confini nazionali. Poi amavo leggere i suoi libri e rileggerli in continuazione perché rimanevo sempre folgorato dalle incredibili idee che aveva, come ne La fabbrica di cioccolato: trovate come la televisione in cui puoi entrare e da cui puoi tirare fuori la barretta di cioccolato, o il rimpicciolimento attraverso lo schermo… erano idee così brillanti!
Allo stesso tempo sapeva usare meravigliosamente le parole: le sue frasi erano costruite in maniera così precisa e ficcante da rappresentare per me un’inesauribile fonte d’ispirazione.

 

 

Sicuramente condividi con Dahl anche un analogo senso dello humour e il gusto per il grottesco. Ma ci sono altri autori che sono stati un punto di riferimento per te?
Certamente. Altri scrittori che mi hanno influenzato sono stati ad esempio Lewis Carroll – ho letto e riletto Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie – J.M. Barrie, Dr. Seuss. Amavo John Wyndham, autore di libri come Il giorno dei trifidi, I figli dell’invasione e in generale la fantascienza per giovani adulti.
Ma alla fine credo che Roald Dahl sia stato lo scrittore che mi abbia influenzato di più e penso che il fatto che Quentin Blake abbia illustrato i miei primi due libri abbia fatto sì che le persone abbiano subito percepito un legame. In fondo non posso negarlo, è bello essere paragonato al proprio eroe.

Anche da bambino eri un lettore?
Non sono stato un forte lettore, almeno fino a quando non ho trovato il libro che ho amato veramente, Prosciutto e uova verdi. Mio papà me lo leggeva sempre prima di andare a dormire e io facevo sogni estremamente bizzarri, di un mondo con creature da incubo, ma che adoravo, perché quello di Dr Seuss era un mondo fuori controllo. Proprio come un sogno: cose nel posto sbagliato, che diventano sempre più grandi, creano sempre più baraonda e non possono essere fermate.
Amavo questo libro, ma mi veniva letto. Non ero molto incline alla lettura autonoma, leggevo giusto qualche libro sui dinosauri, sullo spazio… almeno fino a quando non ho incontrato i libri di Roald Dahl; il primo libro che ho letto da solo è stato La fabbrica di cioccolato.
Questo che ho scelto (estrae dalla piletta uno dei volumi per la foto, ndr) sono Gli sporcelli.
L’ho scelto per la straordinaria inventiva: è un libro per bambini che parla di una vecchia coppia sposata che si odia. Quale bambino vorrebbe leggere una storia con questi presupposti? È geniale.
D’altronde appassionarsi alla lettura non è sempre facile, penso che la cosa più importante sia che i bambini abbiano accesso ai libri, magari andando spesso in biblioteca.
Io sono stato fortunato, andavamo in biblioteca ogni due settimane per scegliere i libri da leggere – io, mia sorella, mia mamma e mio papà – e sono stato ancora più fortunato a trovare un libro che mi abbia fatto appassionare alla lettura. Prima, come dicevo, non ero un gran lettore: mi piaceva inventare storie, sognare ad occhi aperti, ma pensavo un sacco al fatto di diventare un attore, un comico specialmente.

E alla fine, infatti, sei diventato famosissimo sia come comico sia come scrittore; come concili queste due anime? Si influenzano rispettivamente?
Il trucco è organizzarsi, perché i miei editori, gli editor, i redattori vorrebbero che scrivessi tutto il tempo, mentre quando partecipo ad uno show televisivo questa è l’ultima preoccupazione di chi mi circonda. E io devo fare tutto quello che è necessario fare.
Queste due anime si influenzano l’un l’altra? Beh penso che probabilmente il mio successo come autore per ragazzi sia più ambizioso del mio lavoro televisivo, perché ho capito che sto facendo qualcosa di più adulto, di più maturo in un certo senso.
Quando scrivi degli sketch comici pensi soprattutto a qualcosa che sia divertente. Quando scrivi per bambini l’ambizione è quella di condurre il lettore in un viaggio attraverso le emozioni.
Non avevo mai capito di poterlo fare, di esserne capace, prima di iniziare a scrivere libri per ragazzi.

Allora raccontaci, quando e come hai deciso – se è stata una vera e propria decisione – di diventare scrittore?
Avevo quest’idea per una storia, su cosa sarebbe accaduto se un ragazzo fosse andato a scuola vestito come una ragazza e pensavo fosse una storia interessante intorno al tema della differenza. E questo è stato dieci anni fa, quando questo dibattito era in una posizione differente, c’era molto più pregiudizio contro chi indossava abiti comunemente attribuiti all’altro genere (il cosiddetto crossdressing). Ora è un argomento molto più attuale e dibattuto, ma allora non era così.
Questa storia ha continuato a rimbalzarmi in testa, dovevo scriverla. Ho pensato: “Non potrebbe essere una piccola sfida farne un libro per ragazzi?”. Sono stato fortunato che il libro sia stato subito pubblicato da Harper & Collins e che Quentin Blake abbia voluto illustrarlo.
Non fu un successo enorme, ma ebbe una buona accoglienza.
Mi era piaciuto scrivere e volevo farlo ancora.
Il mio secondo libro, Mr. Stink, è stata un’esperienza ancora diversa. A boy in a dress prendeva ispirazione da alcuni episodi che avevo vissuto in prima persona; Mr. Stink era esclusivamente frutto della mia immaginazione e questo mi ha fatto pensare che potevo fare ancora di più, partendo proprio da lì, dalla mia immaginazione.

Nei tuoi libri spesso usi il filtro della comicità per raccontare situazioni paradossali che allo stesso tempo mettono in evidenza dinamiche serie, come la solitudine delle persone anziane ad esempio, il problema dell’alcolismo e l’elaborazione del lutto. La buona letteratura è anche e soprattutto questo: parlare di un tema lasciandolo implicito e, talvolta, scherzarci sopra, sdrammatizzare.
Penso che quando scrivi un libro, e quindi conduci il lettore lungo quel viaggio di cui parlavamo prima, è bene avere presente la destinazione di arrivo, quello di cui vuoi parlare, cercando però di non tenere una lezione. Non voglio che il mio libro sia “un libro che parla di…”.
La vita è talvolta tragica e divertente allo stesso tempo. L’umorismo è gran parte della vita ed ha un posto d’onore affianco alle cose serie. A volte può addirittura gettare nuova luce sulle cose serie.
Ma credo che la cosa fondamentale, come scrittore, sia di non stare ad analizzare troppo quello che si sta facendo e come lo si sta facendo, ma agire d’impulso, pensando: “questa è una storia fantastica”.
Alla fine pensi: “ah ma forse il mio libro parla di questo problema… forse volevo parlare di quest’altro problema…”.
Penso che ai bambini piaccia l’umorismo nei libri, a loro piacciono le pagine che divertono quanto quelle che spaventano. Il mio mito personale, Roald Dahl, riusciva a fare tutto questo contemporaneamente.