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Frammentarietà della contemplazione di Gabriel Pacheco

[da Andersen 297 – novembre 2012] Il discorso di presentazione di Gabriel Pacheco (illustratore di copertina di questo numero) tenuto in occasione dell’apertura del corso estivo di perfezionamento 2012 di Ars in Fabula, percorso formativo ideato da Fabbrica delle Favole e attivato dalla Accademia di Macerata.

I. UN ALTRO LUOGO
Ho sempre trovato difficile parlare di se stessi, dire a parole agli altri ciò che si pensa in silenzio. Quando ci ho provato sembrava come se l’idea si fossa rotta, lasciando solo frammenti, frammenti di idee, immagini, storie. Con la sensazione quindi di essere incompleto più che mai. Cercherò qui di condividere alcune idee, sperando che il fatto che sono tutte insieme, le renderà un’idea logica o con almeno un po’ di coerenza.
Ho iniziato come assistente nello studio di mia sorella, ho fatto di tutto, a volte ho dato il colore ai suoi disegni, altre li ho trasferiti su carta Fabriano e alcune volte sono intervenuto su qualche linea. Io naturalmente non ero un illustratore, ero un intruso che, deluso da un rapporto di lavoro come scenografo, si trovava alla deriva. Così ho iniziato quattordici anni fa in Messico, senza un chiaro senso, per caso, come gettato lì da un altro luogo. Ora, dopo tutto, preferei credere che tutto è accaduto con esattezza, a partire da piccoli dettagli, lentamente e con precisione. Come fanno gli orafi.

II. PERDITA
Quando ho cominciato a fare le mie prime illustrazioni, ho iniziato come faccio ora, senza sapere come o quale sarebbe stato il risultato finale, sempre alla cieca rispetto a dove le mani tracciavano segni, a volte con fortuna e più spesso invano. Fin dall’inizio ho avuto l’idea che illustrare fosse trasformare, sostituire, e in ciò vedere soltanto la parte strana, incerta di ciò che viene illustrato, la parte che è ambigua. Volevo inventare un’idea del mondo per me, ma anche giocare a riordinare le cose, per come mi piace vederle.
Il sostegno del mio lavoro iniziale sono stati il disegno e il colore, quindi ho percorso prima quella strada. Disegnare si è convertito nell’idea cieca di quando si tasta il proprio volto e si traccia il contorno di cose che immaginiamo, ma non conosciamo. Così i miei primi lavori si sono sempre scontrati con l’angoscia di una parete di ombre, perché quello che io provavo a fare faceva apparire soltanto ombre.
“Che cosa significa una barca di carta rossa sul pavimento?, E questo?, Cosa dovrebbe essere?, E ora un serpente arrotolato?” Parlavo di risate e giochi, non di cose strane. Certo, illustravo piuttosto intuitivamente. Ma l’intuizione è un sentiero dove non c’è nulla, la scoperta di ciò che ci si aspetta sempre di trovare. Così, senza sapere dove stavo andando come illustratore, tutto mi ha portato nel posto in cui sarei dovuto arrivare, il luogo delle allegorie.
Sono stato guidato da tre Caronti, loro mi condussero dall’altro lato; il primo fu Octavio Paz con la sua espressione perfetta della parola, poi Pina Bausch con la sua densità del quotidiano e il terzo Theo Angelopoulos con la sua poetica infinita. I tre sono un eterno faro che mi segue ancora oggi luminoso. È buffo perché, quando qualcuno nasce, si dice anche “venuto alla luce”. Così, illuminato da loro, ho imparato che tutte le cose possiedono un carattere magico:  oscillano come una calamita con la nostra sola presenza.
Studiavo anche teatro e ho letto studi sulla la regia da Stanislavskij a Eugenio Barba. Quello che sembrava un controsenso è diventato un ponte per trovare l’idea principale nel mio lavoro come illustratore. Allora il mio sentirmi orfano è stato coperto con idee sceniche ed apprezzamenti letterari. Così, l’insicurezza che mi causava l’aver cambiato quello che diceva il testo, si trasformò in una costante che mi consentì una strada completamente aperta. È questa la colonna vertebrale del mio lavoro: l’uso della metafora e della struttura del concetto. Un gioco per dire le cose in un altro modo, in un’altra forma.
E benché l’illusione di esprimere con queste idee quello che io vedevo mi riempisse di entusiasmo, come illustratore sapevo molto poco, quasi niente, così, essendo io un intruso, decisi di studiare con grandi maestri dell’illustrazione: Wolf Erlbruch, Kveta Pacovská, Lisbeth Zwerger, Pablo Amargo. Naturalmente, non lo hanno mai saputo, anche perché non c’erano corsi con loro, ma le loro immagini persistono così tanto nei miei occhi che le mie mani le ricordano ad ogni tratto.
La ricerca poetica ed il senso dell’incerto sono diventati il mio unico interesse di lavoro. Poi, come Sigismondo, ho lasciato per sempre il mondo della certezza per essere inondato da infinite domande. Dice Pablo Amargo che “una buona illustrazione dipende dalla quantità di domande che ci si pone quando si lavora”. Certo, avrei desiderato che il mio lavoro rispondesse a ciò, ma questo vaga piuttosto che tentare di trovare un senso. Così i primi anni furono abbastanza strambi.
Poi vennero Lorca ed i suoi disegni magnifici, la chiarezza maestra degli esercizi di Paz, l’insegnamento sintattico di Chema Madoz, la maestosa lievità di Chillida, l’esattezza dei poeti come Sabines, la forza di Carlos Alonso, gli atti poetici di Phillipe Menard o le finestre infinite di August Sanders.
Tuttavia le domande non sono mai terminate, al contrario, aumentavano in misura sproporzionata col tempo. Apparivano in maniera incontrollata stando di fronte al foglio bianco puntando sull’uso di colore, tecnica, stile, linea, densità, luce. Quante domande…  solo le ore di lavoro alleviavano un po’ queste angosce formali. Tuttavia altre mi seguirono da tutte le parti, più tragiche ancora, senza riposo ed anche quando ero lontano dal tavolo di lavoro. Domande che giocano solo a domandare qualcosa e che non avranno mai una risposta certa. “che cosa è un albero? che cosa è una sedia?, che cosa è il cuore?, e la solitudine?, o che cosa è il dolore?, e la dimenticanza? Che cosa è tutto questo?”
Forse è il sasso lanciato nello stagno che forma migliaia di onde infinite che ipnoticamente ci guardano.

III. LA PIETRA
Parlando di pietre, queste mi fanno pensare molto, la mia relazione con esse è stata sempre insistente, almeno metaforicamente, al di là del fatto che ho la testa dura. Ho trovato che il concetto è come un sasso quando ci si perde da qualche parte, per questo motivo ne tengo sempre tre nella tasca, uno dice perché?, un altro per quale motivo? E il terzo lo uso per legarlo ad un libro e lasciarlo dondolare come una metafora.
Insistendo con le pietre, penso anche che lo stile è un sasso che continuiamo a scolpire e levigare alla ricerca di una forma fino a dissolverlo nel nulla, un percorso sempre transitorio, come una spirale dentro noi. Dopo questo percorso resta solo la polvere che ci copre.
Permettetemi di leggere una brevissima conversazione tra una poetessa ed una pietra:
La poetessa dice: “bussai alla porta di una pietra e dissi: sono io, fammi entrare. Allora la pietra rispose:  Non ho porte”.
È così, cerchiamo di entrare in quello spazio in cui pensiamo ci siano cose, sapendo che non ha porta e allora creiamo un buco come quello di Alice, per entrare e scoprire il non scoperto, inventare un altro mondo, il nostro proprio mondo.
Dice Wittgenstein:  “il mondo è tutto quello che accade, è la totalità dei fatti, non delle cose”
Così ora mi sono appropriato di tutte le cose che contemplo e ho incominciato a costruire un mondo mio per illustrare con lui. Perché guardare è un modo di appropriarsi del mondo. Rubiamo ogni oggetto per restituirgli un altro significato: un pesce diventa un cuore, il dolore un albero che cresce nel petto, il suono uno sciame di vene oppure le pietre diventano occhi. Scene frammentate che continuiamo ad interpretare. È come quando troviamo una fotografia abbandonata per strada e da quello che vediamo immaginiamo o tentiamo di immaginare la sua  storia. Così tante domande sarebbero da tenere come fotografie.
Sì, apparteniamo ad una serie di frammenti contati da altri. Passiamo come piccole pietre che sognano con il mondo, siamo schegge di una gran roccia che contempla e che finisce con le mani vuote. Perché anche l’illustrazione ci abbandona lasciandoci solo ricordi di quello che abbiamo fatto. Questi sono i Frammenti della contemplazione.

IV. PAREIDOLIA
Illustrare è l’opportunità di infilarsi nel mondo insieme agli altri frammenti che noi siamo per formare l’immaginario della nostra creazione. È così, come il frammento che cerca di ritornare all’universo, intrecciandosi. Noi ci intrecciamo nell’illustrazione.
Costruiamo i fili che uniscono le cose separate. Poi tutto ha un senso. Michel Petit dice bene: “il libro ci riunisce”.
L’unico vincolo è il limite dell’illustrazione, dove non smettiamo mai di urtare contro quello sfondo infinito che è il foglio bianco, che a volte ci copre gli occhi e ci fa sognare e altre volte ci fa fuggire impauriti.
Sì, l’illustrazione è una macchia che trova una direzione, che trova un’immagine che avevamo perduto. Perché tutto quello che vediamo sporgere dal tetto, o nelle pieghe della carta, nella macchia che lascia l’inchiostro, nelle tracce del pennello sulla carta o nelle forme delle nuvole, l’abbiamo visto già prima dentro noi, solo che si è scolorito col tempo.

V. FRAMMENTO
Ora e dopo alcuni anni, incomincio a vedere con un po’,  ma solo un po’ di chiarezza, quella necessaria per sapere dove guardare; tutto ha un senso. Ora so che il mondo è una gran metafora. Mi piace immaginare illustrazioni, che, completatane una, ne lasceranno sempe un’altra mancante.
Il mio lavoro non spiegherà mai niente, sarà solo un frammento di storia ricamato su un’altra storia, la figura che tace, l’altra che guarda, le scene disabitate, insistentemente nello stesso spazio, giocando coi silenzi, coi vuoti, col gesto, con lo sguardo, col poco colore che rimane. Il desiderio di essere come quella fotografia di uno sconosciuto che troviamo per strada o come la nota di qualcuno a cui manca l’ultima parte. Uno spazio condiviso nel mondo incompleto che serve per completarmi.
Così illustro, così mi formo, di frammenti, di cose incomplete, certe o inventate, reali o immaginate, sognate o ricordate, rubate o ingenuamente chiamate proprie, di parti a cui si cerca di appartenere, frammenti di storie che si disperdono e che vogliono essere raccontate.
Forse ho la stessa confusione di quando ho iniziato, ma certamente ora, sono certo che contemplare il mondo da un frammento è come guardarsi completamente.

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