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Pennac, come un attore di Giorgio Scaramuzzino

pennac[da Andersen 291 – aprile 2012] – Incontro con Daniel Pennac, a venti anni dall’uscita di Come un romanzo.

– Incontro Pennac in un camerino del Teatro delle Vigne di Lodi. Il fatto, in sé, non eccezionale, più di una volta ci siamo visti in camerino. Ma stasera i ruoli sono ribaltati: tra poco meno di mezz’ora sarà lui a dover recitare. Ebbene sì! Pennac attore. Da tre anni, in giro per l’Europa, porta in scena Bartleby lo scrivano di Herman Melville, da lui tradotto e adattato per le scene. Non è la prima volta di Pennac attore, già con “Grazie!” un suo testo teatrale, si era compromesso con l’arte della recitazione.

Hai paura quando entri in scena?

«Beh, sì! Ma è una paura particolare. Non è quella di essere ridicolo, nè tantomeno di dimenticarmi le battute, è invece la paura di non essere in grado di incarnare il teatro, di rendere giustizia ai personaggi.Ci sono sere che tutto questo accade, altre no».

È, quella di Pennac, una paura “etica”, non sempre è vissuta dagli attori professionisti, i quali credono che il “mestiere” possa rispondere a tutte le incertezze. Pennac attore è perciò sereno, lo si capisce dal modo in cui indossa la camicia e soprattutto da come lucida le sue scarpe, con gesti lenti e un’attenzione particolare. Continuerà per tutto il resto della chiacchierata. Un rituale? Un gesto scaramantico? Semplicemente un modo tutto suo per entrare nella storia che dovrà, tra poco, raccontare.Hai scritto per il teatro, molti tuoi testi sono stati ridotti teatralmente (in Italia dal genovese Teatro dell’Archivolto), perché hai sentito il bisogno di salire su di un palco ed essere tu protagonista?

«Vedi, scrivere è per me un lavoro solitario. Quando scrivo sono dentro ad una solitudine assoluta, perennemente ossessionato dal libro che sta per nascere. Ad esempio l’ultimo mio lavoro, uscito da poco in Francia e che in Italia sarà intitolato “La storia di un corpo”, mi ha impegnato per quattro anni. Anni di solitudine ossessionante. Per bilanciare ho scelto di fare teatro. Il teatro è vita. La gente, gli spettatori, ma non solo… lavori insieme ad altri: il regista, i tecnici. Il teatro è vivo; è frutto di un lavoro collettivo, anzi associativo. È un lavoro di gruppo».

È attento Pennac, cerca le parole, le soppesa. Nel suo buon italiano non vuole essere frainteso, cerca in ogni aggettivo, in ogni sostantivo, l’urgenza del significato. Si sincera sulla sua chiarezza e, una volta rassicurato sorride. Ho saputo che stasera è l’ultima replica di Bartleby, ti dispiace?

«No! Finito Bartleby penserò a qualche altra cosa».

Hai in mente nuovi progetti teatrali?

«Mi piacerebbe lavorare su un racconto di Dostoevskij».

Mi risponde con una certa frenesia, la stessa che si legge in un bimbo che sta per scartare un pacco regalo. Pennac è un adulto che non ha perso l’entusiasmo e la curiosità tipiche dell’infanzia. Si capisce dal suo sguardo che ha ancora voglia di giocare, soprattutto con le parole, il suo vero tesoro, in tutti i modi possibili. È infatti un autore che ha scritto usando diversi linguaggi e proponendosi a diverse tipologie di lettore. Oltre la saga di Malaussène, che lo ha fatto conoscere in Italia, famosi sono anche i suoi racconti per l’infanzia. Abbaiare stanca e L’occhio del lupo sono diventati da noi veri e propri long sellers. Quest’ultimo, oltretutto, è considerato dallo stesso Pennac il suo libro migliore. Il personaggio di Kamo, protagonista di quattro avventure davvero originali e sorprendenti, è molto letto e apprezzato dai giovani lettori italiani.
Ci puoi dire in anteprima per Andersen se hai qualche progetto per l’infanzia?

«Molto volentieri. Sto lavorando a una fiaba che molto probabilmente si intitolerà Ernesto e Celestino. È una storia di un piccolissimo topo e di un enorme orso. Sarà pronta ad ottobre. Amatissimo soprattutto dagli insegnanti è stato ed è Come un romanzo, un saggio che ha davvero aperto nuovi orizzonti sulla pedagogia della lettura ed è diventato uno strumento indispensabile per tutti coloro che si occupano di promozione del libro e del piacere di leggere».

Nel 1992 è uscito in Francia “Come un Romanzo”. Sono passati venti anni… Non riesco a terminare la domanda perché leggo nello sguardo di Daniel stupore e perplessità.«Vent’anni!?» Ripete a mezza voce. «Invecchiamo, eh?!» Il suo sorriso è l’autorizzazione a continuare. E già, sono passati venti anni da questo tuo lavoro. Hai mai pensato di scriverne un seguito?

«In effetti con Diario di scuola (Feltrinelli, 2008) ho voluto fare un’ulteriore riflessione sul mondo scolastico e soprattutto sugli insegnanti. In un certo senso è un po’ la continuazione di Come un romanzo».

Ora ha finito di lustrare i suoi scarponcini, capisco che è arrivato il momento di lasciarlo in pace. Mi siedo in platea curioso di vedere lo scrittore-attore. Quando entra in scena è accolto da un fragoroso applauso, si capisce dall’intensità che è carico d’amore. Dopo una breve presentazione inizia la lettura-spettacolo. Quello sul palco è un altro Pennac, completamente diverso da quello che ho appena incontrato in camerino. La sua voce calma, confortevole, esalta la bellezza del racconto. Cambia ritmo e colore della voce con grande maestria. Le sue intenzioni sono così chiare che ti dimentichi di guardare le didascalie in italiano che scorrono sullo schermo. Ogni qual volta che ripete il famoso tormentone “preferisco di no!” la sua voce torna pacata, quasi atonica, come suggerisce Melville nelle didascalie del racconto. Alla fine gli applausi sono meritatissimi. La spettatrice seduta accanto a me non riesce a trattenersi: “Bravo, eh?!” Torno in camerino. Ci salutiamo con un abbraccio. È visibilmente stanco. Dopo un’ora e mezza di monologo lo sarebbe qualunque attore. Mi sto avviando verso l’uscita ma la sua voce mi blocca. «Sai cosa aggiungerei oggi a Come un romanzo? Un diritto in più: il diritto di addormentarsi sul libro… Anzi il diritto di addormentarsi sul libro, anche se quello che stai leggendo è un libro che ti piace molto». Sorride. Grazie Pennac!

(foto di Alberto Prina)

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