Premio Andersen 2025: Miglior libro mai premiato la quarantaquattresima edizione

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I Tillerman di Cynthia Voigt, trad. di Marina Migliavacca, Il Barbagianni

Per un romanzo denso, tornato in una nuova e completa traduzione, che restituisce sulla pagina la complessità di una storia avvolgente, dando voce e corpo a quattro prospettive d’infanzia. Per un viaggio in cerca di casa, raccontato con la giusta lentezza e lasciando felicemente in sospeso spaccati di vita incrociati sulla via. Per la capacità di dare spazio, senza retorica ma con determinata lucidità, a tematiche come la solitudine, i ruoli di cura, la violenza domestica, la salute mentale.

Recensione di Martina Russo pubblicata su Andersen n.419:

Quattro bambini soli e un viaggio attraverso la Costa orientale degli Stati Uniti alla ricerca di casa, famiglia, di un posto nel mondo in cui sentirsi a proprio agio. Sarebbe forse troppo semplice riassumere così la densità di un romanzo come I Tillerman di Cynthia Voigt, da poco tornato a disposizione dei lettori italiani, questa volta in versione integrale grazie all’editore Il Barbagianni, dopo le precedenti uscite per Bompiani nel 1994 e per Fabbri nel 1999 (e nel 2000 per “I Delfini” dello stesso editore) con il titolo Voglio tornare a casa. Un romanzo corposo – sono oltre quattrocento le pagine e molti di più i chilometri percorsi dai protagonisti – per raccontare la storia di Dicey, James, Maybeth e Sammy, quattro fratelli tra i tredici e i sei anni abbandonati senza una spiegazione dalla mamma nel parcheggio di un supermercato. Sotto la guida della maggiore, Dicey, i ragazzi decidono quindi di raggiungere la destinazione per la quale erano partiti: la casa della prozia Cilla, il cui indirizzo è scritto sui sacchetti del pranzo lasciati dalla mamma. Gambe in spalla partono, affrontando i naturali pericoli di muoversi soli, con pochi soldi e una carta geografica. Ci saranno lungo la strada una serie di incontri che costelleranno le loro avventure: avventure che non si esauriranno con l’arrivo dalla zia perché – senza anticipare troppo – anche qui le cose non andranno nel migliore dei modi. In queste poche righe c’è però solo lo scheletro di una storia avvincente, commovente e piena di vita, che non sente il passare del tempo. Perché, se è vero che si percepisce un’ambientazione lontana dalla contemporaneità (la storia si svolge, non esplicitamente, negli anni Settanta), dall’altra riesce a mantenere una fresca attualità nel raccontare l’infanzia, le dinamiche tra i fratelli, lo sguardo bambino nell’affrontare le avversità e anche la necessità di crescere più in fretta di quanto non fosse previsto. Fondamentali anche i comprimari che popolano questo lungo viaggio, di cui scorgiamo parte della loro storia personale, ma non tutta. Dalla cugina in odor di vocazione, ai due fidanzati in fuga da un passato di violenza, alla generosità di due studenti universitari, alla storia della madre… Rimane la curiosità intorno a ciò che non viene raccontato: Voigt sceglie, in maniera assai realistica, di lasciare molto in sospeso, tanto che viene da chiedersi se alcuni dei fili si riallaccino nei successivi sei volumi di questa serie, al momento inediti in Italia. Il romanzo è comunque autoconclusivo e, anzi, nel migliore dei modi. C’è la voglia di non tacere niente, di sottolineare, anzi, la fatica di crescere (sia in senso transitivo che intransitivo); si toccano corde profonde, si parla di solitudine, di violenza domestica, di depressione e di salute mentale, senza che nessuno di questi argomenti diventi un tema intorno al quale costruire della retorica. Insomma, un gradito ritorno, un romanzo potente, una storia da godersi con la giusta lentezza.

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