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Le degenerate di J. Albert Mann, trad. di Giuseppe Iacobaci, Uovonero
Per una storia densa e corposa, capace di tenere alta la tensione anche nel racconto di una quotidianità inizialmente sempre uguale. Per la scrittura solida e il ritmo ponderato con cui, in un contesto storico poco noto e proprio per questo sorprendentemente inquietante, si inanellano fughe, perdite e rinascite. Per lo spazio di riflessione offerto, senza retorica ma con lucida determinazione, a tematiche intersezionali.
La recensione di Martina Russo, pubblicata su Andersen n 416
Lo senti forte sul viso il pugno sferrato da questo libro. Lo senti come lo sente London, che, dopo un’infanzia tra orfanotrofi e una breve parentesi di libertà a casa della vecchia Dumas, viene malmenata e caricata su una camionetta verso una nuova prigionia. Ha quattordici anni, è incinta (e questa è la sua colpa e la dimostrazione, per l’epoca, di essere incapace di controllarsi moralmente) e dunque il luogo deputato ad accoglierla è la scuola Fernald, detta anche “la Scuola per idioti e deboli di mente del Massachusetts” (realmente esistita e chiusa solo nel 2014). Qui sono internate, in una rigida routine, anche le sue coetanee Alice e Maxine, che a breve compiranno però quindici anni e dunque passeranno al reparto delle adulte, e Rose, la sorella di Maxine, che prova fin da subito grande simpatia per la nuova arrivata. Le ragazze sono rinchiuse per motivi diversi, più o meno “patologici”, o meglio, certamente patologici per il tempo in cui si svolge la storia, il 1922.
Tutte le ragazze ospiti della struttura sono sostanzialmente state dichiarate inadatte alla vita sociale e pertanto vengono ingabbiate in questa rigida quotidianità fatta di momenti atti all’esercizio fisico (correre in tondo…), l’igiene personale, parchi pasti, attività manuali e poco altro, in una scansione alienante e sempre uguale. L’arrivo di London è un piccolo terremoto: la ragazza non ha paura di niente, non è per nulla mite e soprattutto è molto intelligente. Il suo guizzo vivo affascina Rose, che è stufa di essere sottovalutata e vuole aiutare la nuova amica a fuggire, agendo per la prima volta senza il coinvolgimento della sorella, che da sempre la protegge. Maxine è una sognatrice che, nonostante tutto, non smette di desiderare un futuro felice, come famosa cantante e libera dal giogo scolastico. E continua anche a pensare che la mamma tornerà a prendere lei e Rose. Alice, dal canto suo parla poco e non nutre alcuna speranza.
Ha imparato suo malgrado a nascondere i suoi sentimenti sotto un guscio inattaccabile. Lì sotto c’è anche il suo amore per Maxine, un amore inconfessabile e proibito. Sono loro le degenerate del titolo: quattro ragazze schiacciate da una società che crede all’eugenetica e al mito della razza, che punta il dito su quanto devia dalla “norma” – sia esso il colore della pelle, un piede equino, una gravidanza indesiderata…- e soprattutto punta il dito sulle donne, sempre e comunque. Il romanzo è denso e corposo: ci saranno tentativi di fuga, perdite e rinascite e ancora perdite e ancora nuove vite. J. Albert Mann scrive un racconto a dir poco potente, partendo da una realtà storica inquietante e stordente, ma che proprio per questo merita di essere raccontata a voce altissima e intorno alla quale intavolare dialoghi, confronti, considerazioni più che mai attuali. Lo dedica “A tutte le ragazze che si son sentite dire di abbassare un po’ il tono” e, già da qui, si può capire quanto affilate siano le sue parole. Magistrale.
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