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Iela Mari di Walter Fochesato

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Una lezione di stile e un profondo rispetto e interesse per il mondo dei più piccoli.

2 aprile 2014 – Lo scorso 2 febbraio se ne è andata Iela Mari e lo ha fatto con la stessa discrezione con cui era vissuta. In punta di piedi mi verrebbe da dire, quasi con il timore di dar fastidio. Una lezione anche per l’oggi, in un momento in cui a parlare di illustrazione si incappa sempre di più nell’autoreferenzialità e dove all’analisi critica di un autore o di un libro si sostituisce il discorso su di sé e sui propri meriti, veri o presunti che siano. Iela era nata a Milano nel 1931, all’anagrafe Gabriella Ferrano.

Iela Mari, La mela e la farfalla, Babalibri

Iela Mari, La mela e la farfalla, Babalibri

Aveva studiato all’Accademia di Brera negli anni in cui rettore era Aldo Carpi, pittore e illustratore, padre di un altro nome nobile della nostra letteratura per l’infanzia: Pinin Carpi, l’autore di Cion Cion Blu. A Brera la Ferrano aveva conosciuto Enzo Mari, uno dei grandi nomi del designer italiano, in un momento di irripetibile fervore. Si sposarono nel 1955 e la loro unione terminò attorno alla metà degli anni ‘60. Nel frattempo dal loro sodalizio erano nati libri come La mela e la farfalla e L’uovo e la gallina. Poi lei proseguì da sola per la sua strada di autrice anche se in qualche modo il suo nome rimase legato a quello dell’ex marito.

Quando, due anni or sono, il gruppo di Hamelin alla Fiera del Libro di Bologna le dedicò una ricca mostra e un bel catalogo, si compresero appieno i suoi veri meriti e la sua profonda, inimitabile autonomia di artista. Animali nel prato, Mangia che ti mangio, L’albero, Il palloncino rosso apparvero fra la fine degli anni ‘60 e la prima metà del decennio successivo e anche qui le date mostrano una loro ben precisa logica. Oggi sono ormai diventati dei piccoli classici, capaci con intatta bellezza di suscitare emozioni e curiosità. Troppo poco noti, purtroppo, nel nostro paese se è vero, com’è vero, che, proposti dalla Emme Edizioni, furono per anni o assenti dai cataloghi o proposti in edizioni non certo visivamente felici che ne sminuivano la forza e la leggibilità. Per fortuna negli ultimi anni ci ha pensato Babalibri a restituirli al pubblico nella loro veste originale. Anche se ancora attendo, e non dispero che venga riproposto Il riccio di mare, forse il suo lavoro più insolito, su cui ritornerò più avanti.

“Qualche fiaba nuova c’è”, con queste parole e con il consueto provocatorio coraggio Roberto Denti iniziava un suo breve capitolo de I bambini leggono del 1978, dedicato proprio alla Mari (e a Maria Enrica Agostinelli) e scriveva, fra l’altro:

“Sono racconti in cui le illustrazioni suggeriscono all’adulto le parole da usare. Ma quello che più conta è la possibilità creativa che suscita nel bambino la sequenza delle immagini sia per il fattore fantasia che per le logicizzazioni spazio-temporali. Che differenza fra una fiaba bloccata nella sua struttura immodificabile e una fiaba che lascia aperti sviluppi ogni volta diversi!”

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Ecco brevi racconti, stringate narrazioni che diventano al contempo – fatta eccezione per Il Palloncino rosso – primissima divulgazione. Già il titolo ce lo suggerisce: sono dedicati ai processi e ai cicli della natura (così fascinosi e misteriosi per un bambino). Non hanno né vogliono avere una qualche morale né hanno parole di sorta. Solo pagine da sfogliare, lentamente e pianamente. Una volta arrivati alla fine si potrà ricominciare perché non c’è fine e dopo l’inverno giunge la primavera e l’albero tornerà ad offrire i suoi frutti e la catena alimentare – salvo la scelleratezza dell’uomo – riprenderà il suo cammino.

Ma quel che più colpisce negli albi della Mari è il processo creativo che l’ha portata alla creazione di queste incantevoli opere. Un severo processo di sintesi, il tentativo di cogliere l’essenza delle cose rappresentate di modo che al bambino sia offerta una visione “pura”, dove il processo di “semplificazione” sia direttamente proporzionale alla complessità delle cose da presentare. Il suo è un segno parsimonioso, uno sguardo limpido contrassegnato da colori nitidi, capaci però, talora, di diventare morbidi e lievi come in certe sequenze de L’albero.

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Iela Mari, Il riccio di mare, Emme edizioni

Anche Il palloncino rosso (siamo nel 1967) mostrava un’analoga impostazione anche se tutto era dedicato alla trasformazione o, a dir meglio, alle flemmatiche, sornione metamorfosi delle cose. Un bambino gonfia appunto un palloncino ma questi gli sfugge e vola. Incontra un albero e diventa mela, poi si stacca dall’albero ed è rossa farfalla e poi fiore di prato… Il tutto attraverso variazioni grafiche che invitano il bimbo allo stupore ma soprattutto all’inferenza, all’ipotesi. Perché anche in questo caso l’invito alla fantasia va strettamente a braccetto con la logica più stringente.

“C’era una volta il riccio di mare… che era un porcospino.. che era la testa di un bambino… che era una rapa… che era un’arancia…”

Sono alcune delle brevi frasi che accompagnano Il riccio di mare, anche in questo caso un libro perfettamente “circolare” e di trasformazioni, accompagnate, in quest’unico caso, da parole.

Una lezione di stile e un profondo rispetto e interesse per il mondo dei più piccoli. Altro che consolle e giochi elettronici. Loro sanno che, come scrisse Gianni Rodari, proprio parlando della Mari nel 1969, “un pezzo di legno può diventare, di volta in volta, nave o casa, aeroplano o treno, uomo o donna”.

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